La nebbia. E il dubbio.
Il capolavoro Konami, Survival Horror che sfida il giocatore a sopravvivere alle sue stesse paure, è un micromondo all'interno del quale non esistono certezze, nè limiti, nè superfici lucide. La nebbia stessa, onnipresente, sembra voler confondere i confini, nascondere gli estremi, velare i colori e calarvi nel mezzo di una realtà che, fisicamente invisibile ed inafferrabile, dovete ricostruire mentalmente sulla base dei ricordi, e degli indizi in grado di evocarli. L'impressione è quella di una ridotta capacità visiva e percettiva, di un velo di ambiguità calato su persone, circostanze ed oggetti: il paesaggio è grigio, i personaggi sono grigi, gli interni degli edifici - quando non imbrattati di sangue - sono, scommetteteci, grigi. A Silent Hill non piove, ma è come se lo facesse. Sempre.
James Sunderland, il nostro alter-ego agevolmente controllato in terza persona, arriva nella cittadina di Silent Hill attirato da una lettera scritta dalla moglie, Maria, deceduta: i primi passi saranno quindi necessari a prendere familiarità col sistema di controllo, interagire con i pochi ma interessanti Personaggi Non Giocanti e lanciarsi alla ricerca di piccoli indizi, necessari a dipanare la trama risolvendone i blocchi narrativi. Se da un punto di vista strutturale il titolo non brilla quindi per originalità (i puzzle "alla giapponese" sono spesso astratti dal contesto, e richiedono di combinare ed utilizzare oggetti secondo schemi non sempre logici), è nell'ambientazione malsana e nei coinvolgenti colpi di scena che Konami dimostra ancora una volta la sua nipponica capacità visionaria. Il ritmo di questo sogno/incubo è implacabilmente lento, e la cadenza dei nostri passi tic... tac... è il metronomo dell'intera esperienza videoludica. Le sequenze d'azione, il cui livello di difficoltà può essere calibrato separatamente da quello degli enigmi, rappresentano più un diversivo che non un elemento caratterizzante: la gestione dei menu è intuitiva, e le inquadrature ad effetto non compromettono il pieno controllo di quanto avviene sullo schermo. Le musiche originali impreziosiscono il tutto, sottolineando in modo efficace ma discreto le scene d'intermezzo, realizzate con quella che nel 2001 poteva essere definita una buona grafica.
E' però l'amalgama a risultare, ancora oggi, vincente ed emotivamente convincente: la coerenza dell'intero progetto, la solo apparente ripetitività delle mappe, il pessimismo che aleggia su ogni oggetto, ed ogni personaggio, ed ogni passo, non danno scampo. A Silent Hill non esiste il sole, ed anche i pochi momenti di distensione rivelano una venatura oscura: se un personaggio sorride, e non capita spesso, i suoi occhi e le sue sopracciglia tradiranno comunque un'angoscia, ed un senso di imminente sconfitta, che non potrà non affascinare la nostra parte più dark.
Silent Hill II è dunque un buon esordio della serie su Playstation II, apprezzabile soprattutto per il senso di coinvolgimento che un mondo in 4:3 così ben tratteggiato sa ancora offrire. ...is it real?
Il primo episodio l'ho preferito, per questioni di trama e... grafica !!
Non scherzo.. non è questione di numero di poligoni a video, di qualità delle texture, di effetti, ecc.
Ti capita mai di riscontrare che una grafica un tantino grezza, spigolosa, magari facente uso di nebbioline per limitare gli elementi da visualizzare, ecc, ecc... risulti dannatamente "atmosferica", artistica e fascinosa ?
A me è capitato con alcuni giochi.. tra questi c'è proprio Silent Hill.
Non parlo di minimalismo.. di ricerca del retrò in nuovi titoli o cose del genere.
Ma proprio di risultato ottenuto con ridotti mezzi a disposizione nel tentativo di rappresentare qualcosa.
Ciao
Per quanto riguarda le tue considerazioni su una grafica solo tratteggiata, per scelte artistiche o limiti tecnici, mi trovi assolutamente d'accordo. Oggi sono addirittura spaventato, ubriacato quasi, dal grado di dettaglio raggiunto dai titoli per XBOX360, ad esempio. Finisce che, piuttosto che giocare in prima persona, preferisco guardare qualcun altro per potermi soffermare sui troppi particolari grafici, sui riflessi, sulle texture, sulle animazioni... finendo per dimenticare il gioco in se stesso. Con tutta questa sovrabbondanza di dettaglio abbiamo forse perso la capacità di sognare, di aggiungere con la nostra fantasia quei particolari che l'hardware non era in grado di definire. Così i rettangoli di Pong diventavano racchette da tennis e le righe sul tappeto persiano di casa ideali piste sulle quali far correre le macchinine.
Da questo punto di vista sono sempre stato affascinato dalla grafica del Nintendo64, a mio parere una delle più suggestive se si apprezza voyeuristicamente il "vedo non vedo" videoludico. Quintali di nebbia ovunque, orizzonti grafici ad un palmo di naso, texture poco definite (con o senza espansione di memoria) costringevano la nostra fantasia a lavorare sodo per aggiungere al piano immagine quello che, per un motivo o per l'altro, non ci veniva mostrato. Vera interattività, dunque. Questa sensazione di incertezza data dalla cronica mancanza di dettaglio, il contrasto con le promesse della vigilia (Project Reality, Silicon Graphics ed altre amenità), il design della console ed il piacere fisico di giocare ancora su cartuccia rendevano l'esperienza del Nintendone davvero unica, nella buona e nella cattiva sorte, rispetto ai sistemi concorrenti. L'Ultra64, come lo chiamavano, era una console diversa per giocatori diversi: avanzata e superata, innovativa nell'introduzione su console dei comandi analogici, chiusa ad esperienze interattive meno ortodosse (FMV, giochi musicali), gigante dai piedi d'argilla perchè troppo dipendente dal supporto di Nintendo, poteva permettersi il lusso di ospitare in esclusiva il primo platform tridimensionale della storia, una riproduzione dell'acqua che all'epoca non aveva rivali ed un certo action-rpg ritenuto tra i migliori videogiochi di tutti i tempi. E scusate se è poco.