11 Settembre 2001, ore 8,46 (il primo pomeriggio in Italia): un Boeing dirottato dell’American Airlines si schiantò contro la Torre Nord del World Trade Center (WTC 1) colpendo l'edificio tra il 93esimo e il 99esimo piano. 17 minuti dopo un altro Boeing impattò la Torre Sud (WTC 2) tra il 75° e l’85°. Alle 10 circa la Torre Sud collassò e la Nord ne seguì la sorte mezz'ora dopo. Le vittime furono 2749... cifra che salì a circa 3000 conteggiando quelle di altri due Boeing dirottati nella stesso tragica mattina: il 77 dell’American Airlines che alle 9,37 precipitatò sull’ala ovest del Pentagono a Washington, e l'United Airlines 93, il cui volo si concluse rovinosamente alle 10,03 pressi di Shanksville, in Pennsylvania.
Fu il peggior attacco subito dagli States dopo Pearl Harbour.
Eravamo increduli, attoniti, sbigottiti quando in Italia le TV iniziarono a trasmettere quelle terribili sequenze che, ripetione dopo ripetizione, si sono installate nell'immaginario collettivo di tutti noi quasi con la stessa violenza distruttiva sprigionata dai Boeing quando penetrarono nelle WTC 1 e 2 come coltelli in panetti di burro.
Chi ha avuto serie TV e film americani come costante e gradita compagnia dell'infanzia e della prima giovinezza poteva ricavare da quella sbalorditiva sequenza un'impressione di straniamento. Sembrava un gigantesco set cinematografico, un immane sfoggio di superfiction su larga scala, un monumentale effetto speciale... eppure non era così! Stava accadendo realmente... e tutti fissavano ipnotizzati una scena che annichiliva le invenzioni del più visionario tra gli sceneggiatori hollywoodiani... la realtà superava la fantasia in proporzioni, potenza visiva e drammaticità.
Si dice che l'11/9 abbia cambiato il mondo... si tratta forse di un'allocuzione retorica di maniera? Forse.
Una cosa però è certa: da quella data il colosso americano si è avviato lungo una china discendente portando con sè buona parte dei sistemi politici ed economici del nostro emisfero.
A quei 3000 morti ne seguirono 6210 tra i soldati americani impegnati in Afghanistan (dall'ottobre 2001) e in Iraq (marzo 2003)... e il tragico conteggio non deve omettere le relative perdite militari e civili subite da Iraq, Afghanistan e Pakistan: oltre 225 mila.
Gli stati uniti hanno speso 800 miliardi di dollari in una guerra globale contro il terrorismo e i "paesi canaglia". Risultati: deficit più che raddoppiato e grave crisi economica che ha avuto (e ha) nefaste influenze sull'occidente...
Dunque sarebbe corretto affermare che l'11 Settembre 2001 abbia segnato l'inizio del declino americano? Probabilmente no dal momento che l'economia degli States stava già dando segni di stallo dovuto ad una serie di gravi squilibri interni che manifestavano un preoccupante abuso di risorse che non sembrava porsi il problema di un futuro meno che luminoso... futuro che, lungi da mostrarsi brillante, è stato oscurato dalle due immani colonne di fumo del World Trade Center.
In quei giorni si disse "Siamo tutti Americani" per sottolineare la solidarietà dei paesi europei e per ricambiare, in un certo senso, il celebre "Ich bin ein Berliner" ("Io sono un Berlinese") pronunciato nel 1963 da John F. Kennedy nella città tedesca oppressa dal muro.
E' possibile pronunciare ancora questa frase con piena convinzione? E' possibile ribadire che di fonte alla follìa dell'11/9 siamo ancora, sia pur faticosamente, tutti americani nonostante i gravi errori e gli abusi commessi dall'amministrazione Bush dal 2003 in poi?
Nell'autunno del 2001 ebbi modo di leggere un libro di una straordinaria giornalista e scrittrice fiorentina recentemente scomparsa. Un testo incandescente, redatto all'indomani degli attentati, che non dimenticherò mai e che divorai in preda ad un profondo turbamento facendomi trascinare da una prosa apparentemente disimpegnata nella forma quanto ricercata a livello di concetti e incredibilmente eloquente nella sua limpida schiettezza: "La Rabbia e l'Orgoglio" di Oriana Fallaci.
In seguito la stessa autrice scrisse un altro testo che riprendeva parte delle argomentazioni già espresse e descriveva così un capodanno newyorchese tra anni dopo l'11 settembre:
<< E stabilito questo, tentiamo di rispondere alla domanda più difficile che mi sia mai posta. La domanda: è ancora possibile spenger l'incendio? Abbiamo già perduto, noi occidentali, oppure no?
Forse no. Lo dico avendo negli occhi lo spettacolo che la notte di Capodanno, il Capodanno del 2004, New York ha offerto a Times Square. Si temeva un attacco nucleare, questo Capodanno, a New York. Il pericolo che il Ministero della Difesa indica col colore verde quando è basso, col blu quando è notevole, col giallo quando è grave, con l'arancione quando è gravissimo,col rosso quando è mortale, era giunto all'arancione e la città non aveva mai vissuto in tanto allarme.
Truppe della Guardia Nazionale giunte da ogni parte dello Stato e in assetto di guerra, diecimila poliziotti messi a proteggere i luoghi più minacciati cioè i tunnel e i ponti e le sotterranee e i porti e gli aeroporti, elicotteri e aerei militari che solcavano il cielo senza sosta, squadre di scienziati e di medici pronti a misurare le radiazioni e in qualche modo a neutralizzarle. Nonché telegiornali che suggerivano di tener le finestre tappate ela cassetta dei medicinali a portata di mano. Però il presunto attacco nucleare non escludeva l'incubo di stragi compiute col metodo tradizionale cioè con l'esplosivo, e in questo senso gli obbiettivi a maggior rischio erano tre. La Statua della Libertà,
il Ponte di Brooklyn, e Times Square: la piazza dove a mezzanotte d'ogni Capodanno i newyorkesi si riuniscono a centinaia di migliaia. Non a caso un detective del municipio m'aveva detto: «Mi raccomando, la sera del 31 stia alla larga da Times Square. Se succede qualcosa lì, è una carneficina che supera quella dell'Undici Settembre». Per tranquillizzarlo avevo dovuto assicurargli che detesto stare nella ressa, che il pigia-pigia mi dà la claustrofobia, sicché per Capodanno aTimes Square non ci vado mai e lo spettacolo di mezzanotte l'avrei guardato alla televisione.
L'ho guardato. E accendendo la televisione m'aspettavo di veder poca gente. Non solo perché il pericolo era davvero grosso ma perché durante la settimana avevo seguito i preparativi e più d'un luogo allestito per accogliere una festa m'era parso un carcere all'aperto. Posti di blocco, torri di guardia, cabine di metal detector. Sbarramenti, transenne per delimitare i recinti dentro i quali i capodannisti controllati uno ad uno coi metal detector sarebbero stati racchiusi, corridoi per la truppa e i poliziotti a piedi o a cavallo... Non mancavano che i carri armati, perbacco, e chi vuol salutare l'Anno Nuovo in un carcere all'aperto?
Invece c'era un milione di persone. La piazza non bastava a contenere la folla che aveva sempre contenuto e per almeno due chilometri la gente traboccava nelle arterie adiacenti cioè nella Settima Avenue e in Broadway. Sia in direzione di Battery Park che di Central Park. Per facilitare il controllo individuale molti erano giunti nel pomeriggio, e da ore stavano lì al freddo. La cosa più bella, comunque, non era nemmeno questa. Era l'allegria smodata e nel medesimo tempo calcolata che li elettrizzava, l'insolenza provocatoria con cui reagivano al rischio d'un altro Undici Settembre. Tutti portavano, infatti, un comico cappellino arancione fornito dal municipio. Tutti tenevano in mano un boccaccesco palloncino dello stesso colore. (Boccaccesco perché a forma di salsicciotto. Metafora un po' oscena che qui significa, diciamo, «Va' all'inferno»). E tutti cantavano il ritornello della nota canzone "New York, New York". Alcuni, nella versione originale: «New York is a wonderful town, è una città meravigliosa». Altri, in una versione improvvisata cioè modificata: «New York is a courageous town, è una città coraggiosa». L'unico a non cantare era il sindaco Bloomberg che ritto su un palco e pallido d'angoscia fissava i tettidei grattacieli dove i tiratori scelti puntavano i fucili a cannocchiale. Oppure scrutava dentro i recinti in cerca degli scienziati con la valigetta permisurare le radiazioni.
Il meglio, però, l'ho visto a mezzanotte. Perché mentre i fuochi d'artificio squarciavano il buio, ogni fuoco un boato così potente da farti temere che l'attacco stesse avvenendo davvero, le macchine da presa hanno inquadrato un giovanotto che si inginocchiava ai piedi d'una ragazza e con la mano sinistra le offriva un anello. Con la mano destra invece alzava un cartello sul quale aveva scritto a gran lettere: «Will you marry me? Vuoi sposarmi?». Dopo qualche secondo di stupore la ragazza s'è messa a baciarlo con avidità, e allora lui ha girato il cartello che sul retro conteneva le parole: «She said yes. Ha detto sì». Poi, a lettere più piccole e tra parentesi: «I knew she would say yes. Lo sapevo che avrebbe detto sì». Bè, è scoppiato il finimondo. Chi saltava, chi s'abbracciava. Chi ritmava Alleluja-evviva-Alleluja. Chi strillava: «Many children, tanti bambini, many children!». Come se l'Undici Settembre non fossemai avvenuto, non fosse mai esistito. Ed io mi sono commossa. Perché era proprio una sfida, quel «many-children». Voleva proprio dire: «Noi non abbiamo paura». E perché non molto lontano c'era il gran vuoto lasciato dalle Due Torri. C'erano i tremila morti ridotti in polvere. I morti dell'Undici Settembre.
Commossa, sì. Io che con le lacrime non piango mai. >> (Oriana Fallaci - "La Forza della Ragione" - 2004)
Fu il peggior attacco subito dagli States dopo Pearl Harbour.
Eravamo increduli, attoniti, sbigottiti quando in Italia le TV iniziarono a trasmettere quelle terribili sequenze che, ripetione dopo ripetizione, si sono installate nell'immaginario collettivo di tutti noi quasi con la stessa violenza distruttiva sprigionata dai Boeing quando penetrarono nelle WTC 1 e 2 come coltelli in panetti di burro.
Chi ha avuto serie TV e film americani come costante e gradita compagnia dell'infanzia e della prima giovinezza poteva ricavare da quella sbalorditiva sequenza un'impressione di straniamento. Sembrava un gigantesco set cinematografico, un immane sfoggio di superfiction su larga scala, un monumentale effetto speciale... eppure non era così! Stava accadendo realmente... e tutti fissavano ipnotizzati una scena che annichiliva le invenzioni del più visionario tra gli sceneggiatori hollywoodiani... la realtà superava la fantasia in proporzioni, potenza visiva e drammaticità.
Si dice che l'11/9 abbia cambiato il mondo... si tratta forse di un'allocuzione retorica di maniera? Forse.
Una cosa però è certa: da quella data il colosso americano si è avviato lungo una china discendente portando con sè buona parte dei sistemi politici ed economici del nostro emisfero.
A quei 3000 morti ne seguirono 6210 tra i soldati americani impegnati in Afghanistan (dall'ottobre 2001) e in Iraq (marzo 2003)... e il tragico conteggio non deve omettere le relative perdite militari e civili subite da Iraq, Afghanistan e Pakistan: oltre 225 mila.
Gli stati uniti hanno speso 800 miliardi di dollari in una guerra globale contro il terrorismo e i "paesi canaglia". Risultati: deficit più che raddoppiato e grave crisi economica che ha avuto (e ha) nefaste influenze sull'occidente...
Dunque sarebbe corretto affermare che l'11 Settembre 2001 abbia segnato l'inizio del declino americano? Probabilmente no dal momento che l'economia degli States stava già dando segni di stallo dovuto ad una serie di gravi squilibri interni che manifestavano un preoccupante abuso di risorse che non sembrava porsi il problema di un futuro meno che luminoso... futuro che, lungi da mostrarsi brillante, è stato oscurato dalle due immani colonne di fumo del World Trade Center.
In quei giorni si disse "Siamo tutti Americani" per sottolineare la solidarietà dei paesi europei e per ricambiare, in un certo senso, il celebre "Ich bin ein Berliner" ("Io sono un Berlinese") pronunciato nel 1963 da John F. Kennedy nella città tedesca oppressa dal muro.
E' possibile pronunciare ancora questa frase con piena convinzione? E' possibile ribadire che di fonte alla follìa dell'11/9 siamo ancora, sia pur faticosamente, tutti americani nonostante i gravi errori e gli abusi commessi dall'amministrazione Bush dal 2003 in poi?
Nell'autunno del 2001 ebbi modo di leggere un libro di una straordinaria giornalista e scrittrice fiorentina recentemente scomparsa. Un testo incandescente, redatto all'indomani degli attentati, che non dimenticherò mai e che divorai in preda ad un profondo turbamento facendomi trascinare da una prosa apparentemente disimpegnata nella forma quanto ricercata a livello di concetti e incredibilmente eloquente nella sua limpida schiettezza: "La Rabbia e l'Orgoglio" di Oriana Fallaci.
In seguito la stessa autrice scrisse un altro testo che riprendeva parte delle argomentazioni già espresse e descriveva così un capodanno newyorchese tra anni dopo l'11 settembre:
<< E stabilito questo, tentiamo di rispondere alla domanda più difficile che mi sia mai posta. La domanda: è ancora possibile spenger l'incendio? Abbiamo già perduto, noi occidentali, oppure no?
Forse no. Lo dico avendo negli occhi lo spettacolo che la notte di Capodanno, il Capodanno del 2004, New York ha offerto a Times Square. Si temeva un attacco nucleare, questo Capodanno, a New York. Il pericolo che il Ministero della Difesa indica col colore verde quando è basso, col blu quando è notevole, col giallo quando è grave, con l'arancione quando è gravissimo,col rosso quando è mortale, era giunto all'arancione e la città non aveva mai vissuto in tanto allarme.
Truppe della Guardia Nazionale giunte da ogni parte dello Stato e in assetto di guerra, diecimila poliziotti messi a proteggere i luoghi più minacciati cioè i tunnel e i ponti e le sotterranee e i porti e gli aeroporti, elicotteri e aerei militari che solcavano il cielo senza sosta, squadre di scienziati e di medici pronti a misurare le radiazioni e in qualche modo a neutralizzarle. Nonché telegiornali che suggerivano di tener le finestre tappate ela cassetta dei medicinali a portata di mano. Però il presunto attacco nucleare non escludeva l'incubo di stragi compiute col metodo tradizionale cioè con l'esplosivo, e in questo senso gli obbiettivi a maggior rischio erano tre. La Statua della Libertà,
il Ponte di Brooklyn, e Times Square: la piazza dove a mezzanotte d'ogni Capodanno i newyorkesi si riuniscono a centinaia di migliaia. Non a caso un detective del municipio m'aveva detto: «Mi raccomando, la sera del 31 stia alla larga da Times Square. Se succede qualcosa lì, è una carneficina che supera quella dell'Undici Settembre». Per tranquillizzarlo avevo dovuto assicurargli che detesto stare nella ressa, che il pigia-pigia mi dà la claustrofobia, sicché per Capodanno aTimes Square non ci vado mai e lo spettacolo di mezzanotte l'avrei guardato alla televisione.
L'ho guardato. E accendendo la televisione m'aspettavo di veder poca gente. Non solo perché il pericolo era davvero grosso ma perché durante la settimana avevo seguito i preparativi e più d'un luogo allestito per accogliere una festa m'era parso un carcere all'aperto. Posti di blocco, torri di guardia, cabine di metal detector. Sbarramenti, transenne per delimitare i recinti dentro i quali i capodannisti controllati uno ad uno coi metal detector sarebbero stati racchiusi, corridoi per la truppa e i poliziotti a piedi o a cavallo... Non mancavano che i carri armati, perbacco, e chi vuol salutare l'Anno Nuovo in un carcere all'aperto?
Invece c'era un milione di persone. La piazza non bastava a contenere la folla che aveva sempre contenuto e per almeno due chilometri la gente traboccava nelle arterie adiacenti cioè nella Settima Avenue e in Broadway. Sia in direzione di Battery Park che di Central Park. Per facilitare il controllo individuale molti erano giunti nel pomeriggio, e da ore stavano lì al freddo. La cosa più bella, comunque, non era nemmeno questa. Era l'allegria smodata e nel medesimo tempo calcolata che li elettrizzava, l'insolenza provocatoria con cui reagivano al rischio d'un altro Undici Settembre. Tutti portavano, infatti, un comico cappellino arancione fornito dal municipio. Tutti tenevano in mano un boccaccesco palloncino dello stesso colore. (Boccaccesco perché a forma di salsicciotto. Metafora un po' oscena che qui significa, diciamo, «Va' all'inferno»). E tutti cantavano il ritornello della nota canzone "New York, New York". Alcuni, nella versione originale: «New York is a wonderful town, è una città meravigliosa». Altri, in una versione improvvisata cioè modificata: «New York is a courageous town, è una città coraggiosa». L'unico a non cantare era il sindaco Bloomberg che ritto su un palco e pallido d'angoscia fissava i tettidei grattacieli dove i tiratori scelti puntavano i fucili a cannocchiale. Oppure scrutava dentro i recinti in cerca degli scienziati con la valigetta permisurare le radiazioni.
Il meglio, però, l'ho visto a mezzanotte. Perché mentre i fuochi d'artificio squarciavano il buio, ogni fuoco un boato così potente da farti temere che l'attacco stesse avvenendo davvero, le macchine da presa hanno inquadrato un giovanotto che si inginocchiava ai piedi d'una ragazza e con la mano sinistra le offriva un anello. Con la mano destra invece alzava un cartello sul quale aveva scritto a gran lettere: «Will you marry me? Vuoi sposarmi?». Dopo qualche secondo di stupore la ragazza s'è messa a baciarlo con avidità, e allora lui ha girato il cartello che sul retro conteneva le parole: «She said yes. Ha detto sì». Poi, a lettere più piccole e tra parentesi: «I knew she would say yes. Lo sapevo che avrebbe detto sì». Bè, è scoppiato il finimondo. Chi saltava, chi s'abbracciava. Chi ritmava Alleluja-evviva-Alleluja. Chi strillava: «Many children, tanti bambini, many children!». Come se l'Undici Settembre non fossemai avvenuto, non fosse mai esistito. Ed io mi sono commossa. Perché era proprio una sfida, quel «many-children». Voleva proprio dire: «Noi non abbiamo paura». E perché non molto lontano c'era il gran vuoto lasciato dalle Due Torri. C'erano i tremila morti ridotti in polvere. I morti dell'Undici Settembre.
Commossa, sì. Io che con le lacrime non piango mai. >> (Oriana Fallaci - "La Forza della Ragione" - 2004)
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