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ID: 239420I primi anni ’80 possono essere considerati, in particolar modo per quanto riguarda il mercato degli home computer, un periodo “eroico” della storia videoludica.
In quel tempo i programmatori non “sviluppavano” i videogiochi, li “creavano”, li “forgiavano”, li “mettevano al mondo”. E molti di questi “parti” erano difficili, talvolta travagliati.
Gli ostacoli, infatti, non mancavano di rivendicare la propria ingombrante presenza già nella fase progettuale, quel momento “magico”, in altre parole, in cui si delineavano le idee portanti che sostenevano la struttura del titolo, costituendone, per così dire, l’intelaiatura concettuale.
Tra la pianificazione e il concretizzarsi di tutte quelle caratteristiche il cui intreccio forma l’essenza teorica del gioco elettronico, come allora veniva chiamato, c’erano di mezzo i severissimi limiti hardware degli home computer e delle console del tempo.
Il videogioco, dunque, già a partire dallo stadio di pura speculazione mentale, doveva sopravvivere ad un’intricata selva oscura di negatività imposta dalla componentistica con cui lo sviluppatore doveva fare i conti. Le buone idee erano, così, decimate da un agguerrito esercito di “non è previsto”, “non si può fare” e “non è sufficiente”.
I programmatori, questi indomiti cavalieri del codice macchina, temerari equilibristi sospesi sul filo del byte e geniali McGyver della programmazione dovevano, in diversi casi, gettare letteralmente il cuore oltre l’ostacolo per arrivare, tramite l’hardware disponibile, là dove nessun sviluppatore era mai giunto prima.

I team di sviluppo di quest’era che, in molti settori, poteva considerarsi ancora semi-pionieristica, erano molto diversi dagli odierni game studios. Non era raro che un’etichetta nascondesse solo due o tre elementi che, in molti casi, componevano un classico trio coder-grafico-musicista… in pratica un equivalente telematico di una rock band strumentale.

Il caso che segue è ancora più estremo, nonché emblematico di quest’affascinante mondo parallelo e della sua faticosa messa in opera delle fondamenta su cui poggia la moderna industria del game entertainment. Il nome dell'effimera etichetta videoludica in oggetto che, come vedremo, non può definirsi “team”, è, appunto, assai significativo per l’accento che pone su quella frontiera hardware, apparentemente insormontabile, che fungeva da spartiacque tra possibile e impossibile: Utopia Software.

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ID: 239421Il nome di Robert Jaeger è legato a Montezuma’s Revenge / Panama Joe (1983/84), platform adventure di grande successo (600000 copie vendute a dispetto della grave crisi del game entertainment business verificatasi nel 1983) distribuito dalla Parker Brothers, realizzato inizialmente per Atari 400/800 e convertito su Atari VCS 2600, 5200, PC, Apple II, ColecoVision, Commodore 64, ZX Spectrum, Sega Master System e Game Boy Color.
Le schermate dei titoli delle versioni Atari 400/800 mostrano, a partire dal famoso prototipo presentato al CES (Consumer Electronic Show) del 1983, il logo “Utopia Software”.

Da un’intervista a Robert Jaeger, fondatore della Utopia: “In quel periodo era comune avviare un’attività per pubblicare in proprio il proprio software. Avevamo un nostro piccolo punto vendita dove inscatolavamo e vendevamo le copie dei miei vecchi giochi.”.
E ancora: “Mio padre mi ha aiutato moltissimo in quei giorni. Non poteva offrirmi alcun supporto tecnico ma non ha mancato di sostenermi alacremente occupandosi di tutti gli aspetti del business.”.

Utopia Software era, dunque, una “one-man label” e aveva le caratteristiche di un’impresa familiare “minima”. Robert Jaeger, ancora quindici-sedicenne, realizzò i suoi primi titoli per Atari 400/800: Chomper (1981) e Pinhead (1982). Si trattava di titoli strutturalmente e tecnicamente basilari che riprendono, a detta dello stesso Jeager, il gameplay di coin-op come Pac-Man (Namco, 1982) e Kickman (Bally / Midway, 1981). Chomper viene distribuito dalla MMG Micro Software con doveroso riferimento al nome del giovane autore.

L’etichetta “Utopia Software”, invece, compare per la prima volta nel 1982 nella titlescreen di Pinhead e, in seguito, come abbiamo visto, in Montezuma’s Revenge, realizzato con il contributo di Mark Sunshine, cui si deve l’idea dell’ambientazione meso-americana e il titolo dall’irridente humour scatologico (la “Vendetta di Montezuma” è la dicitura con cui in Messico si fa riferimento alla classica diarrea da viaggio).
La versione Atari 400/800 di Montezuma’s Revenge fu completata nel 1984 mantenendo la compatibilità per Atari 5200 e limitando, di conseguenza, la dimensione del platform a soli 16 KB. Il prototipo del gioco, invece, richiedeva i 48 KB di RAM dell’Atari 800 espanso e del successivo 800XL e Jaeger prevedeva di terminarne lo sviluppo per valorizzare le specifiche questi modelli di home computer. Purtroppo questo porting del popolare titolo non fu mai completato e si aggiunse agli altri progetti abortiti di Jaeger: The Jawbreaker Construction Set per Atari 400/800 e Crossfire Canyon per Commodore 64 (conversione di un action game psichedelico di Dave Sullivan per VIC-20).

La crisi che colpì il mercato videoludico nel 1983 causò il temporaneo ritiro della Parker Brothers da questo settore e costrinse Jaeger a dedicarsi ad altro.
Nel 1996, il nostro game designer sembrò tornare alla sua originale attività nell’ambito del nuovo team Utopia Technologies che realizzò per la WizardWorks un tardo seguito in 3D del noto platform: Montezuma’s Return (PC Win95/98). Questo ambizioso action-adventure, pur particolarmente avanzato sul profilo tecnico, non riuscì a replicare il successo del predecessore.
I Take Two Interactive / Tarantula Studios convertirono, infine, nel 1998 Montezuma’s Return per Game Boy Color, realizzando un titolo 2D molto convenzionale dove sopravvive ben poco, ormai, dell’atmosfera e del fascino del “Monty” originale.

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Alessio "AlextheLioNet" Bianchi