La natura commerciale dell’opera videoludica la lega a degli standard industriali necessari alla diffusione del prodotto, tra cui spesso l’appartenenza a generi già consolidati, in grado di essere subito riconosciuti dal pubblico. La facile accessibilità del titolo permette alla maggior parte degli utenti di avere gratificazioni immediate e divertimento, confermando quindi la bontà della produzione ed il raggiungimento dello scopo per cui essa è stata creata, ovvero “divertirsi con un prodotto di intrattenimento elettronico interattivo”. Il videogame è quindi destinato a restare confinato nel suo ambito ristretto di prodotto di consumo, con obiettivi e finalità dichiarate o si può evolvere ad uno status di opera artistica più elevata? Retrogaming History esplora oggi il complesso rapporto tra Arte e Videogioco, analizzandone i punti di contatto.
Oltre la settima arte
Anche il cinema, nato come forma di intrattenimento puro e semplice, è riuscito ad evolversi verso un utilizzo più artistico del mezzo, generando, in oltre un secolo di vita, prodotti che trascendono la finalità di solo passatempo visivo e si avvicinano sempre di più ad una espressione artistica. La passività del cinema, in questo caso, è un vantaggio, poiché lo spettatore è “costretto” a vedere dall’inizio alla fine l’opera, nell’esatto iter di costruzione. Ogni scena, ogni singola inquadratura, ogni dialogo, sono studiati dal regista o dallo sceneggiatore per avere un prodotto finito, esclusivamente consumabile e non modificabile. Si potrebbe obiettare che anche il videogame è un’opera passiva e quindi non passabile di cambiamenti da parte dell’utente finale, ma spesso questa è una mezza verità. Senza dover andare a scomodare i MMORPG o i giochi online basati su mondi persistenti, in cui tutto o quasi viene lasciato nelle mani degli utenti, anche nei prodotti dell’intrattenimento domestico è stata raggiunta una “libertà d’azione” relativa che permette finalmente una vera e propria interattività, non solo di attuazione di un atto studiato da altri, ma una reale capacità di poter modificare il destino del gioco stesso. Questi picchi interattivi sono stati raggiunti da due giochi che prenderemo ad esempio, la serie GTA: Grand Theft Auto di Rockstar Games e Fable di Peter Molyneux.
GTA, la libertà d’azione e di scelta
Nella serie GTA , la vera novità è stata la rivoluzione concettuale delle possibilità lasciate al giocatore, pur tralasciando le polemiche sull’esagerata violenza del tema di fondo dell’opera, che è spesso volutamente parodistica, come nei film di Quentin Tarantino. Del resto già dai tempi in cui i programmatori erano noti come DMA Design, l’umorismo splatter dei Lemmings era innegabile. Per la prima volta, dunque, si lascia al giocatore una libertà esplorativa, decisionale e d’azione mai vista prima. E’ certamente vero che finché non si compirà quel determinato evento previsto dagli sceneggiatori, la trama non andrà avanti, ma di fatto sarà possibile ottenere gli obiettivi del gioco in moltissimi modi differenti, anche inediti e non studiati a tavolino dai programmatori della Rockstar Games. Questo potrebbe essere senza dubbio un grandissimo passo avanti per il fattore puramente ludico del gioco, ma è in dubbio se la libertà concessa al giocatore possa avvicinarsi all’arte, la cui natura di fruizione passiva mal si sposa con un concetto così radicale. Quest’opera quindi rientra nel filone esclusivamente ludico? Risulta difficile non riconoscere una grande ricerca artistica nella creazione di città e personaggi così vivi e ricchi di particolari da darci ricordi ed emozioni tangibili, che ricorderemo per lungo tempo. Molto evocativi sono anche gli artwork della serie.
Fable e la terra di Albione
La rappresentazione fantastica di Fable, ambientato in una versione alternativa e fantasy della Gran Bretagna, è un titolo unico dal punto di vista della libertà lasciata al giocatore, che ha ottimi spunti anche sul rapporto tra arte e ludo.
La cosa più interessante del titolo Lionhead Studios è di poter far evolvere il personaggio sia come eroe che come malvagio, legando questo alle scelte del giocatore, in una apposita voce denominata “Personalità”. Le possibilità di interazione sono molto alte ed è permesso, durante il gioco, fare veramente tutto ciò che viene in mente. Albion è davvero un piccolo paese simulato digitalmente dove vivere e comportarsi da virtuoso o da vile, sarà solo nostra la decisione di essere nobili eroi o crudeli tiranni! Il combattuto equilibrio tra bene e male dipenderà sempre dalle nostre scelte, in questo risiede la grandezza artistica del titolo. L’introspezione psicologica di noi stessi, che ci porta a capire come ci comporteremmo per ottenere uno scopo, avendo la possibilità di raggiungerlo con entrambi i metodi, onesto o disonesto. Non a caso il progetto inziale nella mente del suo creatore, Peter Molyneux, si chiamava “Project Ego”.
L’arte di simulare la vita
All’artista inglese appena citato si devono grandi opere come Populous, Power Monger o Black & White, che sono state le pietre miliari dell’intero genere dei “god games” ovvero dei particolari titoli in cui si assume il ruolo di divinità del mondo che si gestisce.
Le emozioni che questo tipo di giochi sono capaci di generare sono spesso controverse, da un lato si percepisce la responsabilità di interi mondi e si gioisce quando si riesce a salvare la vita ad una delle proprie creature, dall’altro spesso l’onnipotenza dà alla testa, poiché, come sappiamo, “il potere assoluto corrompe in modo assoluto”. I god games sono un filone meno esplorato dagli sviluppatori giapponesi, ricordiamo ad esempio ActRaiser della Enix, che si avvicina molto alle simulazioni di vita, i “sim games”, in alcune sezioni. In questi giochi si gestiscono piccoli omini che vivono all’interno di un pc (Little Computer People), interi pianeti (SimEarth), singole città (Sim City), vite di persone virtuali, The Sims, eccetto il primo tutti rilasciati dalla Maxis, per finire con ospedali e parchi a tema (Theme Hospital e Theme Park, entrambi prodotti dalla Bullfrog). La paternità dei sim games è spesso attribuita a Will Wright, che però non considera le sue opere come dei veri e propri videogiochi, poiché il fatto di non avere un vero e proprio scopo e di essere degli strumenti di costruzione manipolabili dal giocatore li rende delle vere e proprie simulazioni. Questa concezione fa allontanare la tipologia simulativa ludica dal videogame classico, rendendola simile allo strumento artistico, dove ognuno può esprimersi come preferisce per imitare la vita reale. Wright ci ha dato i pennelli e la tela, ma adesso dipingere tocca a noi.
Rappresentazione del mondo, dai quadri a Second Life
La rappresentazione del mondo in cui viviamo è sempre stato il motore dell’arte, fin dai primi graffiti presenti nelle grotte, per arrivare col tempo ai vasi decoratissimi che accompagnavano i defunti verso il mondo dell’aldilà. Oltre a ciò, spesso, i quadri e le mimesi grafiche sono l’unica testimonianza del mondo come era, visto che il passare dei secoli ha cancellato inevitabilmente usi, costumi e modi di vita del passato. Grazie ai quadri possiamo sapere come era il modo di vestire del '700, possiamo vedere i paesaggi non più esistenti delle città ed edifici cancellati dallo scorrere del tempo. In epoche moderne ci è venuta incontro l’invenzione della stampa, della fotografia e dei metodi di registrazione video e sonora. Se oggigiorno è impossibile ad esempio ascoltare la voce originale di Cesare che parlava al suo impero, è invece conservata la voce di Gandhi che predica fratellanza e amore, oppure le sue fotografie. Con l’avvento dell’informatica si è raggiunta la sicurezza della conservazione del passato, esistendo enormi archivi su qualunque argomento dello scibile umano. La conoscenza del mondo, quindi, si è ampliata a dismisura grazie alla diffusione di internet, finestra conoscitiva inimmaginabile fino a pochi decenni fa. La sua rappresentazione artistica però resta complessa, la natura è sempre stata ispiratrice dell’arte, ma fino a che punto l’arte cerca di superarla o di restarne pura immagine? In questo secolo sono nati nuovi mondi virtuali, che vanno ben oltre i videogames, come ad esempio i mondi immaginari di Second Life, dove le persone esistono in modo alternativo alla realtà stessa. In quest’universo irreale ma a suo modo tangibile, ognuno decide come vivere. Spesso ci sono istituzioni che ricreano il mondo reale, negozi e piazze virtuali, o cantanti che si esibiscono in SL come farebbero nella realtà, ma l’assenza di limiti di questo ultra-mondo porta ad avere nuove strade da percorrere. Gli artisti di qualunque settore lo vedono come un’opportunità unica, dove non esistono i vincoli imposti dalla società reale e quindi ci si può esprimere liberamente.
Pari dignità dell’emozione reale e di quella virtuale
Quello che è più importante dei mondi virtuali, siano essi fenomeni come Second Life o i semplici videogiochi, è che essi sono in grado di dare emozioni. Questi sentimenti possono scaturire dalla fiaba raccontata agli sfavillotti in Super Mario Galaxy, da una storia intensa vista al cinema oppure da una serata trascorsa con degli amici su una spiaggia in una vacanza di un’estate passata. Quanti di noi ricordano bene City 17, evocativa ambientazione di Half Life, come un posto realmente visitato? E quanti non avrebbero problemi a dire: “nel 2000 sono stato in vacanza a Parigi, nel 2003 a Vice City”, la città immaginaria della serie GTA? Un paradosso certo, ma il cervello, a livello inconscio, considera sullo stesso piano i ricordi della realtà e quelli generati dal medium digitale. Un discorso simile per certi versi a quello di Total Recall, film di fantascienza del 1990, ispirato ad un racconto di Philip K. Dick, che gioca sul filo del rasoio tra memorie reali e ricordi “indotti”. Non è dunque importante la “fonte”, poiché il cervello non fa distinzione tra reale e virtuale, e trasmette l’emozione con i medesimi meccanismi mnemonici. E non è forse emozionare lo scopo ultimo dell’arte?
La ricerca della perfezione
Il prodotto videoludico, a differenza di quello esclusivamente artistico, cerca sempre di migliorare sè stesso, e questo a causa del legame intrinseco con la tecnologia. Il primo Tomb Raider, che poteva sembrare perfetto nel 1996, dieci anni dopo ha avuto la necessità di un remake, intitolato Anniversary, poiché i suoi mondi sotterranei ed inesplorati avrebbero di sicuro tratto giovamento dal perfezionarsi della rappresentazione grafica, grazie ai nuovi sistemi ludici presenti sul mercato. Lo stesso creatore del titolo, Toby Gard, ha partecipato molto entusiasta al progetto, pur avendolo abbandonato nel momento in cui la saga, per motivi commerciali, era divenuta troppo diversa dalla sua visione originale, ed aveva visto l’allontanamento dell’artista dalla sua stessa creatura, rimasta in mano agli sviluppatori della Core Design. Allo stesso modo Resident Evil, pur non mutando in alcun modo il concetto di “avventura grafica arricchita da elementi di sopravvivenza all’orrore” ha visto rilasciare sul GameCube la cosiddetta “Rebirth” un’edizione ricchissima di particolari, capace di donargli nuove prospettive. Il remake ha reso gli ambienti della celebre villa ancora più immersivi e vitali, riuscendo a terrorizzare i giocatori che decisero di rivivere il primo grande incubo della Capcom. L’arte, al contrario, non vive di ricerca della perfezione, poiché ogni opera è strettamente legata al periodo in cui è stata concepita dall’artista. Certo esistono reinterpretazioni, citazioni e rielaborazioni, come il celebre caso della Gioconda “coi baffi”, di Marcel Duchamp, o l’autoritratto di Dalì nei panni della suddetta. Ma nessuno oserebbe mai creare davvero una Primavera “Enhanced” dell’originale di Botticelli, sarebbe subito considerato come un imitatore. Tantomeno Piero della Francesca avrebbe mai fatto un “remake” di una sua opera per sfruttare nuovi mezzi espressivi. I mezzi della pittura, paradossalmente, non possono evolversi da quelli dei maestri del '400, un quadro sarà sempre composto con tela e pennelli. Discorso diverso per il cinema, che ricorre spesso ad opere di rifacimento dei classici, a causa dell’evolversi delle possibilità tecniche a disposizione dei registi. La semplicità narrativa del film “La cosa da un altro mondo” del 1951 di Christian Nyby e Howard Hawks è stata stravolta da effetti speciali, impossibili per l’epoca, nel remake del 1982, “La cosa” di John Carpenter. Possono però nascere nuove forme d’arte, come quella cosiddetta “computer art” realizzata con i moderni mezzi informatici, o la PiXel Art, che unisce musica ed immagini ludiche ad 8bit. La “game art”, però, sta ancora lottando per la sua dignità artistica, a causa della natura commerciale e di intrattenimento che l’ha generata, come dimostra la mostra The Art of Games, organizzata ad Aosta dal team di Debora Ferrari, in cui per la prima volta i videogiochi sono visti ufficialmente come ARTE. Ma del resto anche le opere dei grandi pittori del passato nascevano grazie alla richiesta dei “committenti”, come sappiamo, che spesso comparivano addirittura nelle opere finali, a margine del soggetto principale. A differenza dell’arte, quindi, gli artisti dei videogames ricercano il continuo miglioramento dei loro prodotti, non solamente per motivi legati al mercato videoludico, ma perché i mezzi presenti all’epoca del rilascio delle opere erano insufficienti a dar vita alle loro intuizioni e visioni che spesso differivano dalla versione finale dell’opera.
Il limite insuperabile
La natura di gioco ed intrattenimento è l’input creatore del videogame ma, paradossalmente, è il suo stesso limite. Man mano che si avvicina ad essere arte, il gioco rischia di involvere verso la passività e di diventare quasi ermetico, fallendo quindi lo scopo principale per cui esso è stato creato: il divertimento interattivo. Un esempio cinematografico affine è la trasposizione del complesso libro del 1959 Naked Lunch di William Seward Burroughs, portato sullo schermo nel film “Il pasto nudo” dal visionario regista canadese David Cronenberg, sempre in bilico tra arte ed intrattenimento, come il protagonista del film che si trova sempre in bilico tra sogno e realtà.
Gli artisti ludici si trovano quindi spesso a dover scendere a compromessi, tra la loro visione artistica e la necessità che il videogame resti “gioco” e sia comunque fruibile da un vasto pubblico. Allo stesso modo, è il medium videoludico ad autolimitarsi, non sapendo ancora che direzione intraprendere. Tutto ciò anche a causa della continua corsa verso nuovi sistemi e nuove macchine, nella tipica evoluzione rapidissima del settore informatico. Mentre nascono nuove forme di interazione, gli artisti sono legati sempre ai mezzi attuali a disposizione e limitati spesso dalle motivazioni commerciali dei produttori di videogames.
Ispirazioni artistiche per il medium e suo superamento
Moltissimi game designers e musicisti del settore, tra cui molti mancini, artisti per natura, hanno una creatività tale da superare il medium, per abbracciare l’Arte a tutto campo. La serie sperimentale per Game Boy Advance, poco nota e denominata Bit Generations, cercava di rendere artistica l’esperienza ludica con titoli unici ed esperimenti particolari. Non a caso il suo nome è ispirato dalla più celebre Beat Generation, movimento artistico nato nel dopoguerra che deve il nome alle intuizione del 1947 di Jack Kerouac. Numerosissime sono le ispirazioni che l’arte pittorica, musicale,letteraria e filmica hanno dato al mondo dei videogiochi nei suoi primi trenta anni di sviluppo, e qui ricordiamo Okami, ma ancora più numerose sono le possibilità di superamento del medium stesso e la sua influenza verso altri media più antichi e blasonati, come ad esempio il cinema. Racconti letterari e fumetti sono stati dedicati a Tomb Raider, serie animate sono nate dalle avventure ludiche di Super Mario e Sonic, molti film sono stati trasformati in videogiochi, in gergo chiamati “tie in” ed altrettanti film sono oggi presi dai giochi, in un continuo scambio culturale tra i due settori. Molte di queste produzioni sono in grado di appassionare sia i giocatori sia chi si avvicina solamente a queste opere derivate. Molti pittori contemporanei hanno dedicato di recente veri e propri quadri agli eroi dei videogames, chiudendo il cerchio.
La visione dell’artista, dal mondo psichedelico ai paesaggi bucolici
Uno degli artisti ludici più eclettici è ad esempio Jeff Minter, celebre creatore di videogames negli anni '80, noto per la sua trilogia dedicata ai “Mutant Camels”. Minter ha sempre ricercato il lato artistico nei videogames, trovando spesso un ottimo compromesso tra Arte e Ludo. La sua continua ricerca nel settore lo ha spesso portato ad esperimenti estremi, come la composizione di un gioco programmandolo riga per riga, secondo l’ispirazione del momento, cercando di dimostrare che il sentire “artistico” poteva generare un prodotto ludico vicinissimo all’arte. Nelle sue opere si ricerca l’espansione della percezione mentale grazie ad esperimenti audiovisivi inediti, accompagnati da una giocabilità frenetica e lisergica. Queste tematiche portano Minter ad essere spesso più “artista maledetto” che vero e proprio game designer. Molti prodotti odierni derivano dai suoi studi, come il lettore multimediale della Microsoft. L’ossessione per la psichedelia degli anni '70 ha inoltre condotto alla fusione di video, musica e creatività, facendolo riconoscere come uno degli artisti più eclettici del settore. Opposta alla visione nervosa, fulminante e frenetica delle opere minteriane c’è quella di una delle personalità più creative dell’intera industria videoludica, quello Shigeru Miyamoto considerato in modo unanime una delle menti più influenti dell’intero settore. Critica, pubblico e sviluppatori di videogames si uniscono nel dire quanto le idee di Miyamoto abbiano dato al mondo dell’intrattenimento digitale. La visione ludica di Miyamoto è fatta di semplicità, calma riflessiva e divertimento puro, derivato dalla voglia di stupire sempre il giocatore con trovate nuove. Caratterizzati da paesaggi bucolici, semplici ed ispirati alla natura, molti giochi di Miyamoto sono spesso citati come pietre miliari e bagaglio culturale indispensabile di molti game designers, tra cui l’artista francese Michel Ancel, papà di Rayman, che considera Miyamoto come una vera e propria musa ispiratrice.
La rivoluzione pacifista di Pac-Man
Gli occhi creativi di un artista come Toru Iwatani, hanno visto in una pizza con uno spicchio tagliato l’immagine di Pac-Man, realizzando in seguito un gioco basato sul concetto di mangiare. La grandezza del titolo è proprio basata sul ribaltamento delle parti tra preda e cacciatore, e sul fatto che si basa totalmente sul movimento puro, non contemplando l’uso del tasto di azione. Pac-Man è stato il primo videogame “pacifista” a non sparare. In un periodo in cui i giochi erano spesso a tema bellico, a causa della grande paura della guerra fredda tra USA e URSS, il titolo Namco rinunciò al tasto “fire” per entrare nella leggenda. Dopo molti anni, cominciò il successo dei first person shooter, fra i quali è indimenticabile Doom, in cui altri due grandi artisti, Carnack e Romero, hanno racchiuso il loro mondo infernale, iperattivo e meravigliosamente delirante, presentando al pubblico qualcosa che ha cambiato per sempre il concetto di gioco d’azione, e facendo nel campo dei videogiochi ciò che HellRaiser del maestro Clive Barker ha fatto per la cinematografia horror. Lo stesso Barker è poi stato coinvolto nel settore ludico con il suo Jericho e Undying. La pace proposta da Iwatani nei videogames è dunque ormai lontana, come dimostrano i tanti titoli di guerra sul mercato, ad esempio l’acclamato Call of Duty di Activision.
Colonne sonore ludiche, quando la musica va dritta al cuore
La colonna sonora dei videogiochi è spesso sottovalutata, ma è invece una delle componenti più in grado di emozionare il giocatore. Spesso celebri titoli del passato sono ricordati per la loro musica ancor prima che per il loro gameplay, come nel caso di Chris Huelsbeck e del suo indimenticabile Turrican o di Koji Kondo, compositore delle musiche delle avventure classiche di Super Mario Bros. La musica assume un'importanza fondamentale nel videogioco, e non è forse la musica una delle arti più importanti? Uno degli artisti più noti della game music è Nobuo Uematsu, autore della maggior parte delle musiche della saga di Final Fantasy. L’epicità della serie non avrebbe raggiunto vette tali senza questo compositore, capace di unire con estrema maestria brani dal sapore più classicheggiante a melodie ispirate dalla new age. Restando nel campo musicale tradizionale Uematsu si potrebbe accostare al bravissimo Mike Oldfield o al corrispettivo francese Jean Michel Jarre.
I videogiochi dedicati alla produzione artistica
Col tempo molti videogiochi hanno cercato di coltivare le capacità artistiche dei suoi fruitori e sono importanti in questo caso esperimenti come Mario Paint per SNES. Il titolo cerca di risvegliare le velleità artistiche attive dell’utente dopo aver battuto molto sulle sue capacità di osservatore passivo dell’arte, e lo spinge a dipingere e a creare qualcosa. Nell’ultima generazione, una grande mano ha dato il Nintendo DS, con il suo pennino, che nella mente dei game designers si è spesso trasformato in sublimazione del pennello! Sul portatile a doppio schermo abbiamo visto, infatti, titoli seminali come Paint By DS, tentativi interessanti di mescolare arte pittorica e videogames come Pac Pix, dove disegnare noi stessi il nostro Pac-Man o l’ancora più originale Kirby: L’oscuro disegno, dove è possibile disegnare per la prima volta noi stessi le piattaforme dove far camminare il nostro eroe rosa Kirby! Il recente Drawn to Life di 5th Cell per DS permette di delineare col nostro pennino il protagonista dell’avventura, o un altro loro titolo, Scribblenauts, ci permette di creare gli oggetti con cui interagire in game, semplicemente scrivendo il loro nome col pennino. Come al solito, gli artisti del videogame hanno saputo interpretare in modo creativo i mezzi messi loro a disposizione dai produttori hardware, con idee spesso divertenti e molto originali. A volte sono i giocatori stessi a trasformarsi in artisti, come ad esempio il fenomeno delle console decorate, spesso veri e propri capolavori di fantasia e creatività.
Natura individuale e critica istituzionale
La stampa generalista e le istituzioni stesse si sono da poco accorte della potenzialità del medium videoludico, ma essendo appena tre decadi che il videogioco ha iniziato il suo cammino, il suo destino è ancora tutto da decidere. Oltretutto bisogna considerare la natura totalmente individuale del videogame. Benché nato per le sale giochi pubbliche, è divenuto un prodotto individuale da utilizzare nell’intimità delle mura domestiche. Questo, per la critica istituzionale può essere un limite, ma è senza dubbio la giovane età del medium a portare le maggiori remore, al donargli la dignità artistica che merita.
Conclusioni
Un videogioco quindi può essere arte o può restare semplicemente intrattenimento. Nel momento in cui riesce ad emozionarci e a toccare i nostri sentimenti, non importa con quali mezzi, diventa arte. Ogni stimolo che riesce a darci, ogni ricordo che lascia nella nostra mente, ogni storia che riesce a raccontarci, quello è arte. Nel caso in cui invece il videogame non si preoccupi altro che di essere funzionale al divertimento e si comporti da puro prodotto per l’intrattenimento, resta nel suo campo. Il videogame non artistico, giocando al meglio le proprie carte e rivelandosi un prodotto valido, magari non verrà ricordato negli anni, ma avrà comunque centrato il bersaglio che si prefiggeva. Come nel cinema ci sono prodotti fatti per far passare il tempo spensieratamente e pellicole autoriali indimenticabili, e allo stesso modo nel campo dei videogiochi ci sono prodotti di consumo, validi ma limitati dal punto di vista artistico, e creazioni che superano il medium stesso per diventare capolavori senza tempo.
Fabio "Super Fabio Bros" D'Anna