Di console, integerrime o meno che siano state, la storia videoludica ne ha viste tante, ma Sony Playstation è stata qualcosa di unico oltre che speciale.
Di tutto questo, per coloro che ne hanno vissuto i fasti restano oggi le Playstation texture – ossessive nella loro video-resa portatrice di quell’anima digitale ormai intrisa nell’esperienza di chi – videoludicamente sensibile al punto giusto - ne ha vissuto il tempo originale.
Sarà stata forse la loro spigolosa onestà, la debole consistenza infiocchettata nella leggerezza carta-velinata delle texture, ma è fuori dubbio che i poligoni abbracciati dalle texture Playstation non erano altro che entità ballerine, palpitanti – geometrie funamboliche all’interno di un incanto digitale ma a tal punto precarie da recalcitrare entro immaginabili contorni in wire-frame - quasi volessero straripare – quasi tutto dovesse al tempo trasformarsi in un emozionale esplodere videoludico - di quell'imperfetto sgomitare di spigolature per una ostentazione di geometrie dalle forme dure che spingevano le garze contenitrici a scivolarsene via durante il loro “Bad-clipping” .
Ovviamente ciò non è solo parte del passato – il videogioco è performance hic et nunc – tempo dell’agire presente, del momento e dell’ora – ma ciò non toglie quanto Playstation abbia rappresentato al tempo per molti la prima vera poesia tecnologica/digitale (oltre che ad un rinnovato entusiasmo per il dibattito culturale sul medium) nell’ostentazione di una perfetta immagine realistica.
Ora é difficile quanto intimo spiegarne il motivo, quasi si trattasse solo di una brutta sensazione pronta a giocare col Tempo, eppure ho sempre sentito qualcosa di fastidioso, sincretico quanto disturbante fra la definizione di Playstation-Generation degli anni 90 e la strage avvenuta al liceo di Columbine a Littleton, in Colorado, il 20 Aprile 1999.
Vi sono alcune frasi nel “Journal” di Klebold che fanno riflettere, fra le quali una di queste recita “E’ interessante essere in un corpo umano e sapere che da lì a poco morirai” – una frase pesante, che pare depositarsi in quegli anni come un epitaffio di marmo appartenente a quella specie di precocità da killer che pre-avverte nella propria risolutiva freddezza quel particolare “sentire” la propria vita al limite – trascendendo la propria esistenza nell’ansia di disincarnarsi corroborata da un'eccitazione esistenziale che abbia la parvenza e l'urgenza di un senso – per quanto atroce - nel presagio d’una fine lucida quanto malvagia.
Era stato subito dopo l’attacco di cuore di quest’ultimo, mentre nell’intensità esperienziale/emotiva di quella prima volta nell’universo Metal Gear io mettevo Solid Snake a strisciare gattoni, la visuale in soggettiva per osservare da vicino le texture del pavimento - decodificando fra i quadrati poligoni ballerini alcuni mozziconi di sigaretta e altre indefinite forme.
Era magnifico provare la sensazione d’un gameplay emergente, di sentire di vivere la possibilità di un’esperienza che, per quanto autorialmente prevista da KonamiKojima, poteva facilmente regalare imprevedibili brividi ergodici.
Tutto pareva serio, tremendamente coerente e digitalmente vivo, poiché lo smacco emozionale di quegli ambienti 3D trascendeva al 100% l’imperfezione delle texture e dell’indefinito dei particolari d’ambiente. E fu cosi che, nel risollevarmi in piedi per continuare a scrutare attorno, la scarsa definizione dei dettagli in soggettiva/zoom mi avevano suggerito quali “feci”/“escrementi” quelle macchie brune e indefinite dentro il water della prigione di Anderson.
Era invece Martedi, le 17.00 circa da noi, e mentre in America venivano brutalmente stroncate vite di giovani ragazzi c’erano migliaia di inconsapevoli altri diciassettenni a pensare che fosse un orario abbastanza buono per giocare Playstation.
Abbiamo vissuto location in Resident Evil, fra caldaie e cantieri in costruzione, uffici della stazione di polizia di Raccoon City e spogliatoi con armadietti laccati, vasche di decontaminazione e magazzini con carrelli elevatori, cessi imbrattati e generatori e valvole e ruggine e carte sparse al suolo fra sirene d’allarme e pompe antincendio, mura e sangue… ma fra le abbandonate location ormai sedimentate nel mio ludo-immaginario di videogiocatore campeggierà sempre il sorriso, l'eccitazione e l'intesa omicida di Eric Harris e Dylan Klebold all'interno degli ambienti scolastici di Columbine.
Nonostante lo stesso Eric Harris -ritenuto la mente pianificatrice dell’assalto -nel preventivare la mobilitazione collettiva di vari capri espiatori dopo la strage aveva scritto nei suoi “journals” che erano affatto da incolpare videogiochi, film e altre espressioni di violenza mediata per il loro gesto pre-meditato (E’ colpa mia! Non dei miei genitori, i miei fratelli, i miei amici, le mie band preferite, i videogiochi per computer, i media, é solo colpa mia - libera traduzione) io, dopo quanto accaduto, dopo tutto il materiale liberamente consultabile su YouTube e le dichiarazioni dei familiari delle vittime e le ricostruzioni cinematografiche e i superstiti al massacro della scuola ho avvertito che qualcosa nel mio videogiocare é stato irrimediabilmente compromesso.
Per me Playstation Generation, allora come oggi, vuole essere sinonimo di un videogiocare consapevole dello stare vivendo il gioco della vita, un gioco attivo ed emozionale per chi sa come giocare all’Esistenza, nell'Esistenza. Esperienze videoludiche che per quanto possano informare di fatti e ambientazioni degradate non riguarderanno mai l’ingiustizia, l'odio e la violenza insite nella vita reale quale ipotetica giustificazione omicida di qualsiasi killer al mondo, violenza dalla quale io, nella maniera più assoluta, in qualità di videogiocatore e non, prendo fortemente le distanze.
Luigi "BraunLuis" Marrone