Ovvero le "esclusive" videoludiche quale zona grigia del sapere
Gli orientamenti del consumatore, punto cruciale fra le tante analisi avanzate dalla Industry del VideoGame, risultano tutt’oggi imbrigliati fra discorsi di casual e hardcore gaming, digital delivery e servizi on line, ma un punto sul quale la questione risulta fortemente tralasciata è l’aspetto socio-culturale del videogioco quale strumento, oltre che di intrattenimento, d’informazione e cultura per l’utente finale.
Un tempo l’accessibilità e la fruizione di un prodotto artistico era rimessa alle possibilità economiche del consumatore: dall’assistere alle opere in teatro alla possibilità di viaggiare per conoscere città ed osservare dipinti e sculture nei musei, la fruizione dell’arte è stata spesso riservata ad una elite aristocratica che tagliava letteralmente fuori buona parte di una utenza potenzialmente consumatrice. E’ pur vero che la possibilità di interessarsi all’arte (prodotta oltre che fruita) era incentivata in modo naturale dall’educazione della sensibilità di chi poteva permettersi adeguati insegnamenti, ma nel tempo questa posizione elitaria e discriminante dell’arte si è livellata di molto, in quanto la possibilità di fruire dell’arte si è conformata (anche in questo caso dal punto di vista della produzione e fruizione) alle più disparate possibilità economiche dell’individuo.
[FONT=Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif]Tornando ai nostri giorni, e pensando ai contenuti digitali audio/video attraverso i quali l’arte viene riprodotta, oggi sul mercato sono presenti, oltre alle nuove tecnologie Blu-Ray o HD-DVD, alcuni lettori DVD molto economici che integrano la compatibilità a svariati formati (DivX, Mpeg, ecc) rendendo praticamente leggibile la quasi totalità dei supporti sul mercato. Inoltre non esiste una preferenza di accessibilità, in quanto è possibile visionare film riproducibili praticamente da ogni sistema, a prescindere dalla qualità del lettore audio/video dell'utente.
Mai il consumatore finale immaginerebbe oggi di dover acquistare un determinato tipo di lettore solo per poter visionare una manciata di film o ascoltare alcuni dischi creati appositamente per essere fruiti solo con quel determinato tipo sistema (tagliando fuori tutti gli altri sistemi sul mercato). Sarebbe un po’ come se la Sony avesse l’esclusiva sui prossimi film di Will Smith (girati tecnicamente per esser riprodotti solo per Blu-Ray) costringendo chi non possiede (e non può permettersi) una Playstation3 o tale lettore a non poter più fruire delle performance dell’attore, ad esempio. Trattandosi di cinematografia, e quindi di arte, si tratterebbe di un discorso piuttosto allarmante che di sicuro mobiliterebbe diversi settori culturali.
Essendo il Videogioco ancora lontano da un riconoscimento culturale istituzionale, tale discorso è a tutt’oggi una questione di pura attualità.
Non è esagerato affermare che NON tutti i consumatori possono annoverare fra i propri sistemi d’intrattenimento videoludico le console attualmente presenti sul mercato. Inoltre, oltre al sacrificio per il prezzo medio di un videogioco, c’è da aggiungere che la piena fruizione al massimo grado artistico di un titolo per i PC d’ultima generazione richiede che questi siano performanti dietro continui aggiornamenti hardware, comportando costi per l’utente finale non sempre immediatamente sostenibili.
Non è fuori luogo ricordare che il consumatore spesso può fruire dell’ultima tecnologia presente sul mercato solo quando questa le diviene economicamente conveniente, e che lo stesso mercato tende a ritardare l’offerta di prodotti innovativi cercando di piazzare il massimo possibile di quanto già prodotto (si pensi ad esempio ai PC con processori dual-core venduti a prezzi ancora elevati quando la produzione dei quad-core era già ben che avviata).
Ciò su cui vale più la pena riflettere, nonché motivo di tale trattazione, non è l’ipotesi di console unica quale unico standard per la riproduzione di videogiochi, quanto invece l’accessibilità dei contenuti artistici, e quindi l’accessibilità alla cultura globalmente intesa, dell’utente che oggi ad esempio non può permettersi di fruire di opere “esclusive” per le varie piattaforme (es. Bioshock, Mass Effect, Metal Gear Solid 4, Resistence, Metroid Prime 3, No More Heroes, ecc…) non possedendo un sistema proprietario in grado di perfomare tali software (in questo caso software intesi come opere artistiche).
Tutto questo interessa il discorso “cultura” più di quanto si possa immaginare.
Mediante l’esperienza Mass Effect ad esempio, action RPG di Bioware in “esclusiva” per Xbox360, il videogiocatore è investito da dinamiche psicologiche di responsabilità e moralità individuali corroborate da funzioni “civilizzatrici” nei confronti di altre specie viventi presenti nella galassia. Solo chi si è potuto permettere (non tutti quindi) di vivere l’esperienza Bioware saprà difficilmente negare che un tale coinvolgimento, vissuto anche ai livelli più superficiali, incentiva alcuni presupposti di tolleranza e accettazione razziale che oggi hanno rilevanza ben più che attuale. Stesso discorso vale per MGS4, “esclusiva” punta di diamante PS3 che porta avanti una serie da sempre incentrata sulle implicazioni morali della guerra, sulla sperimentazione genetica in ambito militare e la trasmissione della conoscenza votata alla formazione dell’individualità.
Un videogiocatore che fosse interessato solo e soltanto a queste due esperienze è inevitabilmente costretto ad acquistare hardware per un valore medio pari a quasi 7 volte tali software.
E’ poi utile ricordare che trattandosi di conoscenza e informazione non regge affatto la scusante della reperibilità di un sistema e del relativo software “esclusivo” dopo la sua svalutazione economica (prezzo) nel tempo (magari a causa dell’introduzione di una nuova console), poiché la fruizione di un’opera d’arte videoludica anni dopo il momento della sua uscita (cosi come un film o un disco), incrina la sua forza di riflessione sociale/culturale/politica del momento storico attuale nel quale la stessa si presenta sul mercato (senza scomodare lo scemare del ludo-appeal a causa del superamento tecnologico correlato, il fermento dei forum e delle comunità on-line che nel tempo si riducono, ecc…).
Questo è anche uno dei motivi per cui i videogames esclusivi di un dato sistema, incentrati su conflitti bellici ad esempio, tendono a non vertere su tematiche di attualità che troverebbero consolidamento solo nel breve termine (e solo per coloro che appunto possono permettersi subito l’acquisto del gioco possedendo tale sistema) preferendo insistere invece sui momenti caldi della storia passata, o sulla fantascienza con le sue coordinate spazio-temporali relative, vale a dire elementi facilmente riconoscibili nel tempo poiché depositati nell’immaginario comune (es. Gears Of War per Xbox360 e Resistence: Fall of Man per Playstation3 in quanto entrambi “Umani contro Alieni”).Oggi quindi la “guerra” dei formati è uno fra i molti motivi perniciosi in grado di nascondere i limiti intrinseci del videogioco culturalmente inteso.A questi limiti va ad aggiungersi l'impossibilità per i giocatori di incontrarsi on-line, condividendo l’esperienza di gioco e il social networking possibile grazie ai servizi XboxLive di Microsoft e PSN di Sony. Pur condividendo lo stesso concetto di Rete e di comunicazione globale, le 2 comunità de facto (e si parla di milioni di utenti), pur giocando al medesimo videogioco non entrano mai in contatto fra loro, per il semplice fatto che il medesimo software gira su piattaforme differenti.
Oltre all’esclusiva dell’offerta software su macchine proprietarie esiste quindi una "esclusiva" della fruibilità dello spazio Web, che rema contro il principio di accessibilità e di comunicazione globale ipotizzata alla nascita di Internet (e dall’idealismo della cultura Web), esplicitando in tal modo uno spazio virtuale che risulta privatizzato quanto una proprietà terrena di tipo fisico nonché (cosa più grave) caratterizzato da un’assoluta incomunicabilità fra le parti.
Da questo punto di vista risulterebbe di gran lunga più opportuno e lungimirante se i videogiochi delle attuali piattaforme (e quelle passate e quelle future che verranno), non spingessero i videogiocatori-opinionisti solamente a parlare di console war fra le piattaforme che hanno i titoli "esclusivi" più interessanti (inneggiando l’una o l’altra console posseduta), bensì inducessero a riflettere su quanto tali “esclusive” rappresentino la zona grigia dell’industria dal punto di vista dell’accessibilità alla cultura, trattandosi di una guerra “esclusiva” solo per i colossi dell’industria proprietari di un sistema, ma persa in partenza dall’utente finale che non può permettersi, e quindi non può accedere (neanche a poco) a quel che magari potrebbe trovare interessante.
In ultima analisi, é sicuramente difficile immaginare la fattibilità di un accordo multilaterale che sradichi dalle posizioni economicamente imperialiste e storicamente acquisite gli attuali colossi produttori di hardware e software quali Nintendo, Microsoft e Sony. Adottare uno standard comune in modo da creare software che possa essere letto da qualsiasi sistema, più o meno economico, che voglia presentarsi sul mercato (la console unica quale sistema di riproduzione standard, come i vari lettori DVD ad esempio), è qualcosa ben lontano dal realizzarsi. L’opinione degli analisti in merito, videogiocatori o meno che siano, è infatti divisa su diversi fronti analitici, tutti ugualmente interessanti.
Uno di questi vede positivamente l’attuale concorrenza hardware, concorrenza quale sinonimo di forza compulsiva in grado di spingere le software house a valorizzare le proprie risorse, incentivando i balzi tecnologici e la qualità dell’offerta sofware. Secondo tale orientamento un unico standard di riproduzione videoludico rischierebbe di frenare il progresso tecnologico, allungando i cicli vitali fra uno standard e quello successivo a causa dei produttori che tenderebbero a sfruttare al massimo le piattaforme installate (cosi come avviene per l’home video).A questo va ad aggiungersi il discorso sulla qualità media dell’offerta che tenderebbe ad assottigliarsi grazie ai grandi publisher che, in assenza di adattamenti per più piattaforme, tenderebbero a ridurre al minimo le spese di sviluppo dando vita a titoli che ricalcano, aggiornandole del minimo, le precedenti offerte (scalzando inoltre via le piccole software house con tutte le iniziali problematiche connesse al marketing, ad esempio).
Nonostante la validità o meno di tali ipotetici scenari possibili, l’importante è continuare a tenere in mente che il VideoGioco, nel momento attuale, non è un medium facilmente accessibile da tutti gli appassionati quanto cinema e musica, in quanto i vari sistemi che ne permettono la fruzione "esclusiva" detengono un potere discriminante in grado di limitarne la portata culturale, piuttosto che potenziarla.
Da questo punto di vista lo sforzo congiunto per una piattaforma unica non dovrebbe essere visto quale possibilità di accedere ad un sistema unico, potente e dalle possibilità illimitate, quanto invece per la possibilità, inestimabile da un punto di vista della conoscenza, di incentivare l’accessibilità culturale a tutte le esperienze video interattive, rendendo sicuramente in tal modo più varia e senza dubbio aderente al momento storico attuale buona parte della produzione videoludica, senza timore di lasciare indietro nessuno.
Per farla breve quindi NO, non dovrebbe necessario acquistare tutto e subito, riferendosi alle piattaforme presenti oggi sul mercato, ma sarebbe invece indispensabile che il Videogioco - l’esperienza videoludica tout court - divenga quindi come il cinema, l’home video, la musica e Internet: un qualcosa che non appena faccia la sua comparsa sul mercato sia accessibile a tutti e per tutti, risvegliando l’interesse grazie al valore dei propri contenuti senza dover assolutamente crucciare l’utente sulla macchina in grado di performarli.
Perché l'esclusività, per sua stessa definizione, può escludere anche dal Sapere, e comunque la si voglia mettere questo sarà sempre un male.
Luigi "BraunLuis" Marrone