Anche lo spazio "gioca" la sua parte
La Silente Collina opera un rapimento avvolgente su molti gamers, un risultato fra poco decennale.
Ma da dove prende forma tale fascinazione?
In realtà Silent Hill possiede tre mani: con una stringe David Lynch e la rarefazione atmosferica dell’Angelo Badalamenti di Twin Peaks, la seconda é tesa verso la visionarietà dell’Adrian Lyne di Allucinazione perversa mentre con l’ultima abbraccia la demiurgica malvagità presente nel Session9 di Brad Anderson.
Classiche cittadine americane di periferia macchiate da follie private dietro facciate ordinarie, con l’originaria story-line arricchita dal plot dell’ultimo "Origins" che, come da titolo, rimane ancorato alle ideologiche incarnazioni della serie.
Non è fuori luogo parlare di “incarnazioni” (tutt’altro che fantomatiche) in Silent Hill, data l’inflazione di proiezioni astrali in grado di creare realtà parallele, alternative (Otherworld) nelle quali ci si imbatte in deformità partorite da visionari animi rancorosi, uomini dal passato torbido e traumatizzato, talvolta omicida.
Il brodo eterico/ noosferico - che rende possibili tali emanazioni in Origins è ancora una volta la mente provata della povera Alessa Gillespie del primo Silent Hill: lei, l’innocenza fatta diavolo che conosce l’odio e che attira a sé personalità dalle potenti energie psichiche, il kit-development per i traumi dei protagonisti di Silent Hill che fanno a loro volta da monster-designer.
Avvicinarsi a Silent Hill è sinonimo di invischiamento in un tessuto simbolico/metaforico nel quale l’immagine/filmato interroga intimamente (e contestualmente) l’osservatore attraverso uno scambio non superficiale, bensì ampio e stimolante. Ignorare tale elemento comporta inevitabilmente la mistificazione dell’approccio (Silent Hill? Mah, un semplice survival horror in cui si ammazzano mostri…) con relativa noia data dall'inevitabile mancanza di ludo-appeal.
In realtà l’opera Konami, in misura similare alle opere cinematografiche summenzionate, interroga il gamer/fruitore la cui fascinazione è garantita da un’intrigante sfida giocata sulla polisemia interpretativa, per la quale partecipazione critica attiva e speculazione teorica restano fattori fondanti.
Un viaggio dentro un viaggio, ogni volta, dai recessi della psiche umana all’esperienza virtuale offerta nella fattispecie dall'ultimo incarnato su PSP: Origins è difatti una breve avventura (6 ore circa) caratterizzata da un’appagante sintesi dei punti di forza della serie, splendidamente ottimizzati per il formato hand-held.
Ma ciò che sorprende del portatile Sony è la preservazione della sensazione spaziale relegata agli ambienti esterni della Silent Hill, indice della storica bontà dell'opera. E' ancora una dilatata sensazione d’apertura e respiro, aerea e lenitiva quella che avvince quando, attraverso il segno inconfondibile di un’estetica mai abbandonata, si prova l’emotivo sollievo di tornare al salvifico biancore di strade nebbiose dopo la macilenta cacofonia degli stage dell’Otherworld.
La diversa natura degli ambienti presenti in Silent Hill crea de facto i presupposti per un entropico dialogo dalle suggestioni e implicazioni emotive che fanno la vera differenza fra le esperienze video ludiche di oggi.
Silent Hill resta ancora oggi l’unica esperienza video-interattiva nella quale location interne ed esterne possiedono un’insuperata preponderanza narrativa grazie al dialogo che si instaura fra le due parti, possibile grazie alla continua ri-conformazione degli spazi di gioco.
Gli ambienti di Silent Hill equivalgono a entità vive, pulsanti, dotate di una personalità psicosomatica (dovuta a traumi umani) cariche quindi di paradossi visivi, dettagli liminali e simboliche idiosincrasie: ogni luogo, ogni spazio, ogni cartello pubblicitario, topografia e onomastica stradale si trasformano in fertili tessuti metaforico-simbolici dal monitum sinistro, la cui interpretazione diviene parte integrante dell’esperienza di gioco.
Seppur le sue strade siano limitate da baratri aperti sul vuoto, impalcature e vicoli morti, nello spazio esterno della Silent Hill le traiettorie paiono moltiplicarsi, le possibilità di fuga aumentare e l’ansia dietro il raggiungimento di una meta rosso-cerchiata sulla mappa accresce il senso d’un funzionante, salvifico scopo: nessun'altra esperienza videoludica riesce a donare il senso di un cosi fluido movimento fra la diversa natura di spazi ambientali.
Ed é per tale motivo che scindere Silent Hill dal concetto di spazio inteso come area esplorabile equivale a considerarlo ciò che non è mai stato: un semplice survival horror il cui fulcro é il combattimento e la fuga.
Silent Hill è una esperienza congeniale per i gamers sensibili alla ricerca di vive suggestioni d’ambiente visivo-sonore, dinamiche introspettive umane e ruolo attivo nella speculazione interpretativa del testo ludico.
Poiché dato un determinato ambiente virtuale, fosse anche una città chiusa e altamente pianificata come la Collina Silente, dove c’è movimento c’è pensiero, in quanto le traiettorie generano spazi.
E le possibilità degli spazi non sono altro che le possibilità della mente.
Ma da dove prende forma tale fascinazione?
In realtà Silent Hill possiede tre mani: con una stringe David Lynch e la rarefazione atmosferica dell’Angelo Badalamenti di Twin Peaks, la seconda é tesa verso la visionarietà dell’Adrian Lyne di Allucinazione perversa mentre con l’ultima abbraccia la demiurgica malvagità presente nel Session9 di Brad Anderson.
Classiche cittadine americane di periferia macchiate da follie private dietro facciate ordinarie, con l’originaria story-line arricchita dal plot dell’ultimo "Origins" che, come da titolo, rimane ancorato alle ideologiche incarnazioni della serie.
Non è fuori luogo parlare di “incarnazioni” (tutt’altro che fantomatiche) in Silent Hill, data l’inflazione di proiezioni astrali in grado di creare realtà parallele, alternative (Otherworld) nelle quali ci si imbatte in deformità partorite da visionari animi rancorosi, uomini dal passato torbido e traumatizzato, talvolta omicida.
Il brodo eterico/ noosferico - che rende possibili tali emanazioni in Origins è ancora una volta la mente provata della povera Alessa Gillespie del primo Silent Hill: lei, l’innocenza fatta diavolo che conosce l’odio e che attira a sé personalità dalle potenti energie psichiche, il kit-development per i traumi dei protagonisti di Silent Hill che fanno a loro volta da monster-designer.
Avvicinarsi a Silent Hill è sinonimo di invischiamento in un tessuto simbolico/metaforico nel quale l’immagine/filmato interroga intimamente (e contestualmente) l’osservatore attraverso uno scambio non superficiale, bensì ampio e stimolante. Ignorare tale elemento comporta inevitabilmente la mistificazione dell’approccio (Silent Hill? Mah, un semplice survival horror in cui si ammazzano mostri…) con relativa noia data dall'inevitabile mancanza di ludo-appeal.
In realtà l’opera Konami, in misura similare alle opere cinematografiche summenzionate, interroga il gamer/fruitore la cui fascinazione è garantita da un’intrigante sfida giocata sulla polisemia interpretativa, per la quale partecipazione critica attiva e speculazione teorica restano fattori fondanti.
Un viaggio dentro un viaggio, ogni volta, dai recessi della psiche umana all’esperienza virtuale offerta nella fattispecie dall'ultimo incarnato su PSP: Origins è difatti una breve avventura (6 ore circa) caratterizzata da un’appagante sintesi dei punti di forza della serie, splendidamente ottimizzati per il formato hand-held.
Ma ciò che sorprende del portatile Sony è la preservazione della sensazione spaziale relegata agli ambienti esterni della Silent Hill, indice della storica bontà dell'opera. E' ancora una dilatata sensazione d’apertura e respiro, aerea e lenitiva quella che avvince quando, attraverso il segno inconfondibile di un’estetica mai abbandonata, si prova l’emotivo sollievo di tornare al salvifico biancore di strade nebbiose dopo la macilenta cacofonia degli stage dell’Otherworld.
La diversa natura degli ambienti presenti in Silent Hill crea de facto i presupposti per un entropico dialogo dalle suggestioni e implicazioni emotive che fanno la vera differenza fra le esperienze video ludiche di oggi.
Silent Hill resta ancora oggi l’unica esperienza video-interattiva nella quale location interne ed esterne possiedono un’insuperata preponderanza narrativa grazie al dialogo che si instaura fra le due parti, possibile grazie alla continua ri-conformazione degli spazi di gioco.
Gli ambienti di Silent Hill equivalgono a entità vive, pulsanti, dotate di una personalità psicosomatica (dovuta a traumi umani) cariche quindi di paradossi visivi, dettagli liminali e simboliche idiosincrasie: ogni luogo, ogni spazio, ogni cartello pubblicitario, topografia e onomastica stradale si trasformano in fertili tessuti metaforico-simbolici dal monitum sinistro, la cui interpretazione diviene parte integrante dell’esperienza di gioco.
Seppur le sue strade siano limitate da baratri aperti sul vuoto, impalcature e vicoli morti, nello spazio esterno della Silent Hill le traiettorie paiono moltiplicarsi, le possibilità di fuga aumentare e l’ansia dietro il raggiungimento di una meta rosso-cerchiata sulla mappa accresce il senso d’un funzionante, salvifico scopo: nessun'altra esperienza videoludica riesce a donare il senso di un cosi fluido movimento fra la diversa natura di spazi ambientali.
Ed é per tale motivo che scindere Silent Hill dal concetto di spazio inteso come area esplorabile equivale a considerarlo ciò che non è mai stato: un semplice survival horror il cui fulcro é il combattimento e la fuga.
Silent Hill è una esperienza congeniale per i gamers sensibili alla ricerca di vive suggestioni d’ambiente visivo-sonore, dinamiche introspettive umane e ruolo attivo nella speculazione interpretativa del testo ludico.
Poiché dato un determinato ambiente virtuale, fosse anche una città chiusa e altamente pianificata come la Collina Silente, dove c’è movimento c’è pensiero, in quanto le traiettorie generano spazi.
E le possibilità degli spazi non sono altro che le possibilità della mente.
Luigi "BraunLuis" Marrone