Sul finire degli anni ’70 due giovani cineasti americani si trovavano su una spiaggia delle Hawaii a conversare; ufficialmente i due erano in vacanza ma in realtà avevano lasciato la zona di Hollywood per scaramanzia, un gesto apotropaico in previsione dell’uscita dei loro rispettivi film (gli artisti, si sa, sono estremamente scaramantici). Pur se in vacanza, i nostri due registi non potevano fare a meno di parlare di lavoro, nella fattispecie dei rispettivi progetti per il futuro; uno dei due, in particolare, confessò all’altro di aver avuto intenzione di dirigere un film di James Bond, ma che la United Artists aveva sostenuto che 007 era un prodotto “british” e che quindi solo persone nate e cresciute in Inghilterra avrebbero potuto prendervi parte. Il giovane “yankee” sarebbe stato accolto comunque a braccia aperte ma non per dirigere un film dedicato alla più famosa delle spie al servizio segreto di Sua Maestà (un agente segreto famoso? Ma non è un ossimoro?). Il suo amico gli confidò allora che era al lavoro, in qualità di ideatore e produttore, su una storia migliore di James Bond, avente come protagonista un archeologo scavezzacollo, e che, se l’altro avesse voluto, avrebbe potuto dirigerla. Come avrete certamente capito, l’archeologo di cui sopra era Indiana Jones e i due cineasti erano ovviamente George Lucas e Steven Spielberg.
Quando George Lucas cominciò a mettere in cantiere il progetto Indiana Jones aveva già le idee molto chiare su alcuni punti; sapeva, ad esempio, che nel caso in cui il film (I predatori dell’arca perduta) fosse stato un successo avrebbe avuto dei seguiti (qualcuno parla addirittura di quattro sequel), quindi era chiaro fin da subito che, se tutto fosse andato per il verso giusto, si sarebbe trattato di una saga. Quando cominciarono i lavori per il terzo episodio delle serie divenne chiaro per tutti che quel capitolo sarebbe stato anche dell’ultimo (non a caso chiamato L’ultima Crociata; è vero che esiste una certa saga video ludica chiamata Ultima che è andata avanti per anni, per non parlare di Final Fantasy ma immagino che proseguire su questa strada ci porterebbe lontano dal punto) ma nonostante questo in molti speravano che ci sarebbe stato comunque un ulteriore seguito, prima o dopo. Oggi tutti sappiamo che è stato effettivamente fatto un quarto capitolo cinematografico delle gesta del dottor Jones (se sia stato un bene o un male lo lascio decidere ad altri) ma alla fine degli anni ’80 sperare di vedere di nuovo Indiana Jones come tutti noi lo conoscevamo (niente telefilm su avventure giovanili, quindi) poteva essere considerata pura utopia. In realtà alla Lucasfilm stavano già lavorando ad un soggetto per un quarto capitolo delle gesta di Indiana Jones, in cui il nostro prode avventuriero sarebbe andato alla ricerca della fantomatica Atlantide, ma il progetto non andò in porto a causa del rifiuto di Harrison Ford (a questo punto potrei aprire una polemica sul fatto che sia stata rifiutata un’idea ottima per accettarne una decisamente più scadente ma forse è meglio lasciar perdere, onde evitare di passare per un fan oltranzista deluso; anche qui il discorso sarebbe troppo lungo per essere affrontato in questa sede). All’epoca Doug Glenn della Lucasfilm Games (si, a quei tempi si chiamava ancora così e l’idea di vendere alla Disney avrebbe fatto sorridere i più) , scherzando disse che sarebbe stato comunque possibile rimpiazzare Harrison Ford con Danny Devito – era una battuta, certo, ma suona strana se si pensa che l’eclettico attore capace di interpretare, per fare un esempio,in maniera così incisiva una figura tragica come il pinguino nel Batman di Tim Burton, era stato scelto inizialmente per il ruolo di Sallah, mentre Tom Selleck avrebbe dovuto interpretare Indy, mentre per il ruolo di Belloq si parlava di – udite udite - Giancarlo Giannini. Ma torniamo a noi. Evidentemente qualcuno doveva aver pensato che l’idea del dottor Jones alla ricerca del Continente Perduto era troppo buona per essere buttata via e che, se proprio Harrison Ford non ne voleva saperne, quell’ottima idea poteva comunque essere sfruttata in qualche altra maniera.
Già, ma come?
Dal momento che non era possibile produrre una nuova pellicola, la Lucasfilm pensò di dare il via ad una sorta di progetto multimediale, per così dire; di fatto, si trattava di produrre merchandising e prodotti correlati ad un film, solo che il film non sarebbe mai uscito. Può sembrare pazzesco, ed invece funzionò, tanto che qualche anno dopo in quel di Marin County, California, si pensò di ripetere la stessa strategia ma con Guerre Stellari, producendo Shadow of the Empire (del quale magari parleremo più nel dettaglio un’altra volta). Ci terrei a sottolineare che la cosa funzionò perché, molto probabilmente, a quel tempo la Lucasfilm Games pensava ancora a produrre prodotti di qualità anziché sfornare titoli spazzatura appiccicandoci sopra il logo di Guerre Stellari pensando che ciò fosse sufficiente a vendere, mentre invece l’unico risultato che hanno ottenuto è stato quello di finire zampe all’aria, assorbita dalla casa di Burbank (si lo so, l’ho fatto di nuovo. Scusate lo sfogo, giuro che non ne parlerò più). La mia reazione - e credo sia stato così anche per altri - a questa notizia fu un misto di gioia e di amarezza; da una parte era possibile seguire ancora una volta le avventure di un personaggio tanto amato in una storia che aveva rischiato di non vedere mai la luce ma da un lato non si poteva fare a meno di pensare che quella storia avremmo potuto godercela in grande stile, sullo schermo di un cinema, nel buio della sala, in compagnia di altri fan come noi. Ma lasciamo perdere le considerazioni personali ed andiamo al sodo.
La trama di Indiana Jones and the Fate of Atlantis la conosciamo tutti ma un breve riassunto credo sia d’obbligo. Il dottor Jones sta svolgendo la sua attività di docente al Barnett College (non è un errore, nel fumetto succede proprio questo) quando viene avvicinato da un tale di nome Samuel Corn (Smith nel videogioco) che gli chiede lumi su un artefatto in suo possesso. L’oggetto in questione presenta un motivo a forma di spirale che fa ricordare ad Indiana alcuni oggetti da lui trovati anni prima in uno scavo in Islanda. L’oggetto si rivela poi essere una chiave ma com’è possibile che migliaia di anni fa i nostri progenitori avessero già familiarità col concetto di serratura e quindi di chiave? L’unica soluzione possibile è che in passato fosse esistita una civiltà estremamente progredita, le cui vestigia sono rappresentate proprio da pezzi come quelli con il motivo a spirale. Il dottor Jones è abbastanza scettico al riguardo ma il signor Corn (che si rivelerà poi essere il colonnello Klaus Kerner delle SS) non ha alcun dubbio sul fatto che quel pezzo e gli altri come quello provengano dal mitico continente sommerso di Atlantide ( citato da Platone in due dei suoi Dialoghi, Timeo e Crizia) e che, se opportunamente sfruttati, potrebbero portare la Germania nazista a vincere la guerra con estrema facilità. Indiana Jones, dal canto suo, crede che i nazisti stiano dando la caccia ad un mito ma non può permettersi di disinteressarsi della cosa, specie quando scopre che i nazisti stanno cercando la sua ex collega Sophia Hapgood che, dopo aver lasciato la carriera didattica, ha deciso di intraprendere la carriera di medium, seguendo messaggi medianici e visioni che provengono, a suo dire, proprio da uno degli ultimi abitanti del continente perduto, il potente Nur-Ab-Sal …
Dan Barry, il disegnatore, molto probabilmente deve essere stato scelto per il suo tratto adatto ad una storia ambientata negli anni ’30; questo non stupisce se si pensa che nella sua carriera di oltre 40 anni nel mondo dei comics si è occupato dell’Uomo Ragno ma soprattutto di Flash Gordon. Di fatto Barry è l’artista che più ha dato al personaggio dopo Alex Raymond. I disegni sono ben fatti e d’atmosfera, con un sapiente uso delle luci che è capace di ricreare l’atmosfera che si prova ad inoltrarsi in una tomba inviolata o di calarsi nelle profondità marine. Il lavoro svolto da Barry è decisamente notevole, soprattutto se paragonato agli adattamenti in formato fumetto che la Marvel aveva fatto dei film di Indiana Jones a suo tempo; il paragone è decisamente impietoso. Quelle erano veramente bieche operazioni commerciale indegne di esser guardate, mentre Fate of Atlantis rappresenta il caso di sfruttamento intelligente di un marchio, affidando un lavoro a chi è effettivamente capace di svolgerlo. Parlando di artisti talentuosi è impossibile non parlare le splendide copertine ad opera di Dave Dorman, altro veterano dell’illustrazione dal tratto realistico che ha firmato altre copertine di fumetti di Indiana Jones, Guerre Stellari e tantissime altre, troppe per essere citate in maniera estesa. Una piccola curiosità è data dalla colorazione dell’ultimo numero;è completamente diversa da quella dei tre precedenti (il coloring dell’ultimo numero è stato curato da Barry stesso) e questo crea uno strano effetto che mina in un certo senso l’integrità dell’opera. Non è un difetto grave ma è una cosa che non si può fare a meno di notare.
Il fumetto è perfettamente in linea con quanto visto nelle pellicole, anche se sono presenti alcuni elementi che possono far storcere la bocca ai fan. Esempio: Indiana e Sophia si recano nelle Azzorre per cercare alcuni indizi sulla loro prossima mossa ed il dottor Jones si rivolge ad un autoctono con qualche difficoltà, con fare impacciato, usando i verbi all’infinito,dicendo cose tipo “noi essere amici” (“we be friends” in originale) finendo per dar vita ad una scena del tipo “nojo volevon savuar l’andiriss”. Appare abbastanza improbabile che Indiana Jones non parli portoghese, dato che sappiamo che il buon dottore parla tutte le lingue del mondo , sia vive che morte. E’ una annotazione di poco conto e non è poi così grave come “mancanza”, ma immagino che molti la noteranno e penseranno che con qualche attenzione in più questo piccolo difetto poteva essere evitato.
La storia è per sommi capi quella che ben conosciamo, anche se, ovviamente, non ripercorre pedissequamente quanto visto nel gioco, in modo da non essere considerata una sorta di soluzione del gioco sotto mentite spoglie, ma andando per certi versi ad integrare quanto visto e fatto nel gioco. Il fumetto presenta parti che nell’avventura grafica non sono presenti o sono appena accennate mentre altre, che nel gioco sono più approfondite e presentate con dovizia di particolari sono qui raccontate in maniera un po’ sbrigativa (vedi ad esempio la parte all’interno del labirinto di Cnosso). Di fatto, quindi, il fumetto può esser visto come una sorta di integrazione a quanto visto nel gioco; non rivela certo chissà quale novità a chi ha giocato l’avventura e non può essere considerato un acquisto imprescindibile, ma è certo una lettura piacevole e che può dispensare anche qualche piccola sorpresa e situazione nuova ( come ad esempio all’inizio del secondo numero, quando Indiana Jones viene ferito e si ritrova costretto in un letto di ospedale oppure l’inizio decisamente sorprendente), risultando quindi un acquisto da prendere in considerazione dai fan del dottor Jones, in special modo per coloro i quali hanno affrontato questa storia in formato videoludico.
Chi ha giocato l’avventura grafica ritroverà tutti i personaggi che ha conosciuto nel gioco, anche se la caratterizzazione che hanno ricevuto potrebbe lasciare spiazzato qualche fan: il colonnello Kerner, ad esempio, appare più anziano (e vagamente somigliante a Donald Sutherland) mentre il dottor Ubermann, al contrario, è stato ringiovanito e reso decisamente più paffuto, oltreché munito di monocolo che fa tanto “crucco malvagio”. Oltre ai volti noti che tutti conosciamo, poi, ci sono vari personaggi in ruoli minori ma significativi che potranno integrare la trama ed offrire nuovi spunti anche a chi conosce il gioco a memoria, come ad esempio Jerry Travis, uno studente del dottor Jones; questi è un membro della squadra di football dell’università che eccelle nello sport ma che non se la cava tanto bene nello studio. I suoi tentativi maldestri di far bella figura col suo professore, però, lo porteranno anche a rendersi utile nel momento del bisogno, seppur in maniera goffa. Marcus Brody, da parte sua, reciterà una parte attiva, seppur breve, nello svolgersi della storia, quando si recherà a Cadice, in Spagna, per contattare il dottor Huribe,altro esperto del mito di Atlantide, con risultati tragicomici che sono facilmente indovinabili da chi conosce il personaggio del curatore del museo.
E’ sempre complicato dare un giudizio su un prodotto su licenza, specie quando si parla di qualcosa a cui si tiene perché tratta di un personaggio amato ma il valore di questo fumetto è fuor di discussione, tanto per le persone che vi hanno lavorato che per i meriti intrinseci della storia. Chi fosse un fan del noto professore e non avesse dimestichezza con i giochi per computer potrebbe essere contento di questa lettura, che racconta la trama in modo sapiente, presentando una storia che è perfettamente in linea coi canoni del personaggio, mentre che ha giocato e rigiocato l’avventura, magari raggiungendo anche il traguardo dei 1000 punti IQ (ebbene si, anni prima che arrivasse la gamer score di Xbox era già possibile “millare” un gioco) potrebbe comunque leggere ed apprezzare questo fumetto, considerandolo per certi versi una sorta di quarto percorso (oltre ai noti tre del gioco) per raggiungere il fantomatico continente sommerso. Ovviamente ogni fan “duro&puro” di Indiana Jones DEVE averlo. Magari in più di una versione. Ogni riferimento alla mia persona è puramente voluto.
Reperibilità
So che non è bello dire che un’opera è praticamente introvabile dopo aver speso centinaia di caratteri ad incensarla ma purtroppo devo farlo. Trovare questo fumetto in lingua originale – almeno in Italia - non è mai stata una cosa semplice; vi basti pensare che all’epoca io fui costretto a macinare centinaia di kilometri per trovare i vari numeri, e non lo dico per dire - l’ultimo lo trovai, non senza una sana dose di fortuna, in una fumetteria di Edimburgo. Ma immagino che a voi di questo interessi poco.
Al tempo (si parla dei primi anni ’90) la Dark Horse fece uscire la miniserie in quattro numeri separati ed anche in edizione paperback, raccolta in un unico volume (piccola nota: l’edizione paperback – almeno la copia in mio possesso- presenta una piccola anomalia: nel secondo numero, verso la fine, due pagine sono state invertite, quindi una appare prima della seguente). Uscì anche un’edizione in italiano ad opera della Granata Press, in due volumi, ma credo che questa edizione (peraltro pregevole) sia praticamente introvabile, vuoi perché è passato molto tempo dalla sua uscita, vuoi perché la Granata Press ha chiuso i battenti da parecchio tempo.
Non molto tempo fa la Dark Horse ha prodotto alcune raccolte dei comics di Indiana Jones chiamate Omnibus che dovrebbero essere (ma il condizionale è d’obbligo) di più facile reperibilità ed il primo numero contiene, appunto, anche Fate of Atlantis.
Indiana Jones and the Fate of Atlantis
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- Pubblicato: 10-04-2014, 14:20
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Indiana Jones and the Fate of Atlantis
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Beh... se Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo non fosse uscito come film, ma come fumetto... magari realizzato dagli stessi autori di Fate of Atlantis... sarebbe stato meglio!
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Davvero curioso... non sapevo nulla di questo fumetto di Indy
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