Sebbene si affaccino nomi nuovi nella vetrina Psygnosis, è più corretto ripartire dagli impegni dei fondatori, che non intendono defilarsi e si tuffano nuovamente in progetti inediti e sempre più promettenti, nella speranza di confermare quel che di buono era già stato archiviato e di migliorare in fatto di divertimento puro. Ian Hetherington, dopo Arena e Terrorpods, persevera nei cambiamenti radicali e pensa ad un flight game fantascientifico da sviluppare totalmente in grafica poligonale; è un progetto all’apparenza molto ambizioso che non parte neppure spedito e mancherà di arrivare nei negozi nel 1988, anzi, tarderà parecchio e Aquaventura, come verrà poi chiamato, si imporrà come uno dei giochi più attesi dell’intera storia Amiga, ma ne riparleremo. Assai più risoluto è David Lawson, orgoglioso del suo ultimo titolo, Barbarian, che assieme alle inevitabili critiche per un sistema di controllo farraginoso aveva anche ricevuto il plauso dei giocatori determinati a sufficienza da andare oltre il periodo di adattamento ai comandi.
Obliterator parte proprio da lì, al punto da sembrare una total conversion in salsa fantascientifica dello stesso Barbarian. Il primo indizio di comunanza è l’interfaccia, ancora una volta posta nella parte bassa dello schermo, con icone quasi del tutto simili, ma i cambiamenti minori apportati non spiazzano gli utenti del precedente lavoro di Lawson, e, nonostante i controlli rimangano in ultima analisi scarsamente maneggevoli, alcuni giocatori possono quantomeno evitare di imparare tutto daccapo. La storia di Obliterator racconta di una razza umana molto, troppo battagliera, al punto da essersi fatta non pochi nemici in giro per la galassia. L’odio verso i terrestri è cresciuto a tal punto da aver spinto diverse razze aliene ad allearsi per sviluppare l’arma di distruzione definitiva: una super astronave dalla potenza di fuoco impareggiabile e munita di scudi dall’impenetrabilità assicurata. Le sorti del conflitto convergono subito contro gli umani, i quali possono giocare solo un’ultima disperata carta: quella del soldato migliore che viene immediatamente teletrasportato a bordo della corazzata interstellare, nella quale dovrà provvedere a disattivare scudi, armi e motori per poi innescare il circuito di autodistruzione e darsela a gambe con uno shuttle d’emergenza. Com’era facile prevedere, Obliterator condivide buona parte dei pregi e dei difetti di Barbarian, ma la strutturazione degli enigmi e dell’astronave, che si propone come un unico grande livello, sembrano meglio riuscite. Molto comoda, inoltre, un’icona che permette al nostro avatar di rotolare e scansare trappole e nemici, una possibilità che mitiga il livello di difficoltà, rendendo la conclusione del gioco accessibile anche a giocatori non funambolici, seppur con bassi punteggi. La qualità del coding di Obliterator non è particolarmente encomiabile e se su Atari ST bisogna lamentare una marcata scattosità, la velocità di aggiornamento dello schermo pare ulteriormente calare su Amiga, dove non è stato svolto alcun lavoro di ottimizzazione per chiamare in causa le peculiarità avanzate dell’hardware. E’ interessante come alla Psygnosis approdino sempre più collaboratori: alla grafica, infatti, troviamo ancora Garvan Corbett ma coadiuvato da Jim Ray Bowers, senza dimenticare la preziosa collaborazione esterna del sempiterno Roger Dean con un’altra cover deliziosa ed altro materiale cartaceo; l’aspetto dei vari elementi nel gioco, tuttavia, pare meno evocativo che in Barbarian, forse a causa del setting fantascientifico piuttosto ordinario. E’ topica, invece, l’entrata per la prima volta negli studi di Liverpool di un compositore che segnerà la storia dell’Amiga: David Whittaker, finora solo con lavori per computer ad 8-bit nel curriculum, che imprime in Obliterator alcuni suoi distintivi tratti musicali, con melodie che suonano bene anche su ST. Obliterator scala immediatamente le classifiche di vendita raggiungendo il primo posto, anche grazie ad alcune recensioni entusiastiche della stampa, ma è anche questo un gioco invecchiato in fretta. Presto arriveranno conversioni per Amstrad CPC, MSX e Spectrum, ma non per Commodore 64, la cui edizione, pur quasi ultimata, ha saltato la pubblicazione per contrasti tra i programmatori.
Arriva finalmente il momento di diventare grandi, fino a far traboccare i propri sogni oltre i confini del Regno Unito ed infatti il primo videogioco a recare il logo Psygnosis senza essere stato sviluppato internamente ha carta d’identità francese. In patria era già noto come Explora, ma non era stato capace di affiliarsi ad un publisher in grado di oltrepassare i confini nazionali, da qui la decisione di farsi adottare dalla software house di Liverpool. Oggi è meglio noto come Chrono Quest benché sia tra i titoli meno popolari della casa della civetta, eppure le qualità non gli fanno certo difetto. Com’è facilmente intuibile dal nome, la sceneggiatura racconta di viaggi tra varie epoche temporali, ma è meglio spiegare dall’inizio: impersoniamo il figlio di un mirabolante scienziato che nelle segrete del suo castello è stato capace di costruire la prima macchina del tempo funzionante. Un giorno, però, troviamo il nostro padre esanime, ucciso dal suo assistente Richard, almeno secondo quanto racconta in un biglietto di avvertimento che ha preventivamente lasciato. Per acciuffare l’assassino dovremo rincorrerlo per varie ere e vari luoghi, non prima di avere individuato la locazione precisa della macchina all’interno della nostra abitazione. Tutto è inquadrato in prima persona, passando da una schermata statica all’altra, ma tutte disegnate con molta cura, mentre anche in questo caso ci fa compagnia un gradevole accompagnamento musicale firmato da David Whittaker. Il diktat della Psygnosis trova anche in Chrono Quest la sua forma, presentandoci l’ennesima stupefacente cover di Roger Dean, tante idee avveniristiche ed un metodo di controllo interamente basato sul mouse, soluzione non scontata nel 1987 quando l’input testuale spadroneggiava. L’interfaccia grafica vive in realtà di alti e bassi, con alcune fastidiose imprecisioni nella rilevazione di oggetti, ma nulla che non sia perdonabile grazie alla godibile trama. La storia è infatti appassionante e Chrono Quest viene premiato da critica e giocatori nonostante alcuni enigmi parecchio astrusi, ed è stato persino capace di guadagnarsi un seguito, pur non riuscendo a spingere la Psygnosis verso un supporto costante alle avventure grafiche.
A Liverpool sembravano ben consapevoli che un publisher desideroso di crescere non poteva limitarsi ad una formula di vendita unica e rigida, tra l’altro molto costosa. Bisognava valutare la possibilità di proporsi anche al prezzo della concorrenza, di creare dei giochi pensati per il joystick e di concedersi anche a qualche genere più scontato. Come evitare, però, di banalizzare il nome della Psygnosis? La soluzione fu quella di un’etichetta associata, la Psyclapse, che avrebbe adottato tutti i progetti “più umili” proposti alla sede di Liverpool.
Il primo ad esordire nella fascia di prezzo standard del mercato è Captain Fizz Meets The Blaster-Trons. Il nome è abbastanza demenziale da tracciare un abisso tra questo ed il resto della produzione Psygnosis, nonostante poi l’umorismo non sia una componente particolarmente tangibile durante l’esperienza di gioco. Il gameplay è invece uno step intermedio tra le bizzarre meccaniche dei precedenti lavori del publisher e l’immediatezza degli arcade, in quanto si configura come un ibrido tra shoot’em up e puzzle game con risultati largamente criticabili. Peculiare il suo gioco in doppio, obbligatorio, cooperativo: per risolvere alcuni rompicapo è necessario agire in due, punto e basta, ma l’aiuto di un amico è gradito anche per spazzar via i tanti nemici presenti soprattutto per coprire le falle di un game design non proprio ispirato. Tecnicamente Captain Fizz è messo sul serio male, con aree di gioco ristrette e sprite perfettamente anonimi. Una produzione umile in tutto, anche nel destino, al punto che al giorno d’oggi non si riescono neppure a trovare i nomi dei membri del team di sviluppo. Per infierire, la ricetta Psyclapse non prevedeva il supporto dei collaboratori più prestigiosi, quindi non c’è nessuna cover disegnata da Roger Dean, che viene rimpiazzata da un’altra comunque accettabile ed ispirata al suo stile. Manca anche il genio musicale di Whittaker, rimpiazzato da Ray Norrish, composer dalla carriera relativamente breve ma autore di soundtrack molto apprezzabili. In Captain Fizz, però, non brilla neppure lui, nonostante siano presenti generosi campionamenti vocali tecnicamente significativi per il tempo. E’ stato pubblicato anche per i computer a 8-bit.
L’etichetta Psyclapse introduce altri nomi nuovi nel panorama videoludico, a testimonianza di un apprezzabile lavoro di scouting a monte, perché anche Wayne J. Smithson si toglierà discrete soddisfazioni. Il suo debutto arriva con Baal, eppure la sensazione è di qualcosa di familiare. Ciò scaturisce dal suo nascere come seguito spirituale di Obliterator, o meglio come suo spin-off. La trama porta delle contaminazioni fantasy nella precedente narrazione science-fiction: un demone è stato risvegliato da due archeologi imprudenti e minaccia di devastare l’universo in lungo e in largo, a meno che non vengano ritrovati i cinque pezzi di una super-arma, l’unica in grado di annichilirlo per sempre. Non era un mistero che molti giocatori si fossero chiesti cosa ne sarebbe stato di Obliterator con un comodo controllo interamente via joystick al posto della discutibile interfaccia ad icone gestita col mouse e Baal è la risposta. Il playfield rimane ad impostazione orizzontale nonostante ogni scenario si strutturi su più piani e, diversamente da Obliterator, è presente uno scrolling al posto del vecchio flip-screen così stonato sull’Amiga. Ciononostante, la fluidità, pur non perfetta, dello scorrimento è frutto del solo coding, che gode della medesima bontà su Atari ST, privo di chipset ad hoc. Il look generale vive ugualmente di alti e bassi a causa di fondali che peccano di banalità nelle fasi iniziali per concedersi qualche acuto successivamente, alla pari dei nemici che si godono, però, una spettacolare animazione di morte. Sul fronte musicale ritroviamo Ray Norrish, stavolta davvero in grande spolvero al punto da sembrare persino più competente dell’immenso David Whittaker per il setting fantascientifico. Il responso fatale a cui Baal si sottopone con maggiore imbarazzo è purtroppo sulla piacevolezza dell’esperienza: non è divertente. Il problema non viene tuttavia sollevato dalla critica contemporanea, probabilmente più allietata dagli step di omologazione verso i classici run’n’gun che delusa da un level design dispersivo, una curva della difficoltà ripida e dalla giocabilità monocorde. Ma Wayne J. Smithson si farà...
Gli ultimi ragazzi ad accodarsi quest’anno al treno della Psyclapse sono certamente molto rilevanti e per incontrarli bisogna spingersi al settentrione della Gran Bretagna, fino alla Scozia, dove dei giovani appassionati di videogames passavano le giornate tanto in sala giochi quanto a dilettarsi nella programmazione. I risultati dei loro esperimenti esprimevano talento a sufficienza da spingere Dave Jones a fondare il proprio team, la DMA Design, una compagine dal successo clamoroso e sopravvissuta negli anni mutando in Rockstar North, nonostante uomini e vertici siano stati totalmente cambiati. Al tempo, però, non dev’esser sembrato vero ai ragazzi di Edinburgo di poter collaborare con la Psygnosis, la grande Psygnosis che si prestava alla pubblicazione di uno sparatutto orizzontale che avevano in cantiere per il Commodore Amiga. Menace, che prima si chiamava Draconia, è nato così, da gente a detta loro più alla ricerca dell’avventura che della gloria. Per una volta non troviamo la solita storia a base di alieni: sul pianeta Draconia sei tiranni si sono equamente spartiti i preziosi territori che lo compongono, sfruttandone le risorse per il loro esclusivo benessere; timorosi di essere detronatizzati, uccidono e schiavizzano gran parte della popolazione, costringendo i medici a studiare i segreti della mutazione genetica per elaborare una flotta di orribili creature a difesa del pianeta. Ciò manda comprensibilmente su tutte le furie le altre civiltà della galassia, che ritenendo troppo rischioso un attacco su larga scala, preferiscono inviare l’immancabile migliore pilota di astronavi dell’universo direttamente al cuore di Draconia. Appartenendo all’offerta Psyclapse, Menace può godersi senza remore le concessioni arcade del caso, non mancando comunque di proporre soluzioni alternative non comuni nel genere shooter come la capacità di incassare più colpi della nostra nave, i quali andranno semplicemente ad accorciare la barra di energia degli scudi; interessante il sistema di potenziamento del nostro mezzo, il quale avviene tramite la raccolta di un unico item rilasciato dai nemici che può essere modificato sparandoci sopra, e, cambiando ogni cinque colpi, richiede di essere ottenuto lontano dalla nostra nave per avere il tempo di trasformarlo opportunamente in ciò che ci serve. Alla stesura del codice ci ha pensato lo stesso fondatore del gruppo, Dave Jones, che svolge un lavoro lodevole, adoperando nella gestione dello scorrimento le caratteristiche specifiche del blitter dell’Amiga, che sfocia in una fluidità ammirevole tanto nel primo piano quanto nella colorata parallasse sul fondale, ma si avverte altrettanta disinvoltura anche in fatto di sprite, grandi e spesso numerosi. Distante dagli esempi di alta scuola giapponese è il level design, che appare involuto, ma Menace si lascia giocare in virtù della barra di energia che permette anche ai meno acrobatici di sopravvivere per qualche minuto, ma lasciano spazio a critiche i monotoni e generalmente poco ispirati pattern di attacco dei mutanti. Margini di miglioramento sono evidenti nello stile grafico, che non rivaleggia con l’accuratezza tecnica ed appare in alcuni frangenti semi-amatoriale, seppure alcuni stage e sprite lascino intravedere buone idee. Avendo valutato molto positivamente Menace, la Psygnosis ha scelto di spendere il talento di David Whittaker per l’accompagnamento musicale del prodotto DMA Design, e l’artista britannico si esprime con uno dei brani più amati dai suoi estimatori, nonostante la sintesi sia troppo carica e sporca, significativamente lontana, per quanto gradevole, dalla tipica composizione dell’autore, pulita e ordinata nelle melodie e dalla digitalizzazione cristallina dei sample implementati. Il brano, purtroppo, è lo stesso per tutti i livelli, per cui se da un lato si assicura di marchiare a fuoco la memoria, dall’altro potrebbe sforare nella ripetitività. Da non trascurare, infine, l’utilizzo di una voce campionata in sporadici casi. Dopo il suo debutto amighista nella stagione natalizia del 1988, Menace ha trovato accoglienza su altre piattaforme: l’Atari ST si difende dignitosamente sul sonoro, ma viene messo in difficoltà dalla mancanza del blitter e l’adattamento del codice pare piuttosto radicale, con un numero sensibilmente inferiore di colori ed il rimpiazzo dello strato parallattico con un banale campo stellare, mentre meno comprensibile è il riarrangiamento della barra di stato; insolitamente più fedele è l’edizione per DOS, assolutamente inascoltabile e con la colorazione del tutto inevitabilmente falsata dalla pochezza cromatica dello standard EGA, ma la fluidità è sufficiente e mantiene tutti gli elementi dell’originale; agrodolce è infine la situazione sul Commodore 64, unica conversione per 8-bit che tecnicamente è decisamente ottima, ma sulla quale risaltano maggiormente i limiti del gameplay a causa di una tradizione shooter assai più consolidata rispetto ai nuovi computer a 16-bit che costringe Menace a scomodi paragoni.
L’anno si chiude. L’avvento della Psyclapse ha fatto emergere nuovi talenti che si sono rivolti con successo ad un pubblico più ampio. I semi migliori, tuttavia, dovevano ancora dare i loro frutti.
Gianluca "musehead" Santilio
Che dire sui titoli Psyclapse ...carini ,specialmente Menace dei futuri grandi DMA ,ma si sà, la roba che costa poco t da poco...
Complimenti Muse, questo terzo speciale è da pelle d'oca.
La storia della PSYCLAPSE è oscura ai più, tanti, infatti, sono convinti che questo nome sia il primo avuto effettivamente dalla futura PSYGNOSIS.
L'etichetta è durata, se non erro, tre anni, dal 1988 al 1990.I giochi di cui parlerai in seguito, saranno i peggiori (credo).
Qualcuno ha detto STRYX?
Bravo Muse
Decisamente più equilibrato anche Menace, grazie soprattutto al perfetto scrolling parallattico e all'ottimo (e purtroppo unico) tema musicale synth-rockettaro del solito Whittaker. Lo pseudo-prequel di Blood Money, tuttavia, soffre un po' di una certa carenza di varietà nell'azione e dei boss statici... ma, per un titolo Amiga datato 1988 e dunque sviluppato su un hardware ancora largamente inesplorato, risultava davvero un ottimo sparatutto e non soffriva nemmeno del classico bilanciamento "tagliagambe" della difficoltà che sarebbe stato abbastanza ricorrente nei successivi titoli Psygnosis.