Tuttavia, proprio l’aver traghettato la programmazione verso nuovi lidi poteva avere i suoi benefici. La creazione del primo Silent Hill, è bene rammentarlo, avvenne ex novo per mano di un team totalmente inesperto nel settore, che tra l’altro non ha mai negato, pur essendo di nazionalità giapponese, di essersi ispirato alla filmografia occidentale (Lynch su tutti) più che a quella nipponica. E il risultato fu clamoroso, ben più sincero e genuinamente inquietante di altri survival progettati a tavolino. Inoltre, lo stesso Resident Evil aveva nel suo curriculum un episodio parallelo (Code Veronica) decisamente più riuscito del terzo capitolo ufficiale, al punto da nascere come esclusiva Dreamcast ed essere in seguito convertito per PS2 e Gamecube. Vaneggiamenti illusori da fanatico oltranzista? Eppure, SHO ha compiuto l’impensabile, dimostrandosi non solo degno del nome che porta, ma addirittura foriero di nuova linfa per la saga, riavvicinandola proprio ai due capisaldi. Un risultato sorprendente, di cui persino i più ottimisti, con ogni probabilità, intimamente dubitavano. È la stessa natura portatile della macchina Sony a contribuire in parte a tale riuscita. L’opportunità di gustarsi il titolo in solitaria, con le dovute precauzioni ambientali atte a ricreare un ambiente sufficientemente cupo, non è solo un obbligo causato dalla grafica spenta che accentua la riflettenza dello schermo qualora in presenza di fonti luminose anche lievi, ma una pratica da eseguire con meticolosità per il proprio malsano piacere. Affrontare le strade di Silent Hill indossando delle cuffie, magari nella comodità del proprio rassicurante letto, col corpo e la mente rilassati da postura e locazione, acuisce la vulnerabilità sensoriale, portando ad una sequela di nuove ed inaspettate suggestioni. L’immersione, la ricettività, risulteranno ampliate a dismisura rispetto alla classica accoppiata monitor/sedia. E, proprio come una nottata agitata ed insonne, affrontare SHO in tali condizioni equivarrà a vivere un incubo ad occhi aperti.
L’introduzione giocabile, preceduta da un percorso che funge da presentazione in stile cinematografico con tanto di brano cantato, unisce idealmente gli incipit del primo e del secondo episodio, non rappresentandone tuttavia una fugace strizzatina d’occhio, quanto il succo dell’intera produzione: un parallelo esplicativo è rappresentato dai “bad” e “good ending” qui presenti, riconducibili ciascuno direttamente ai finali dei primi due. Ed è così che a cavallo tra il classico horror del progenitore e le drammatiche vicende del sequel, si condurrà il camionista Travis Grady (ora accostabile ad Harry Mason, ora improvvisato James Sunderland) nei meandri tortuosi sia della propria psiche che della città fantasma, in una vicenda antecedente il primo capitolo, avvertendo il chiaro intento di riportare la serie su quei binari introspettivi e dis-umani da un po’ di tempo latitanti. La stessa Silent Hill, pur abbastanza asettica, tornerà protagonista, grazie ad una buona rappresentazione grafica e ad un’esplorazione nuovamente pericolosa e sconsigliata. L’imprevedibilità dei nemici che nel primo capitolo rendeva le strade un percorso ansiogeno, coi pericoli che potevano giungere finanche dall’alto, nel secondo perdeva il suo impatto, con delle creature contraddistinte da eccessiva lentezza/debolezza, veri e propri birilli da evitare/abbattere in tutta tranquillità. In SHO il concetto di mostro ritorna agli albori, con delle aberrazioni mutanti che, pur riprendendo visivamente alcune già apparse, risultano maggiormente inquietanti, rapide e combattive. Non verrà concesso al giocatore di soffermarsi troppo in determinate zone, perché immediatamente subissato da avversari in grado di privarlo delle preziose scorte, siano esse bevande salutari o munizioni. E allora, similarmente a quanto accadeva in Resident Evil 3 col Nemesis, per colmare il vuoto o la noia dell’esplorazione di un ambiente fittizio, ecco sopraggiungere una scarica di adrenalina che scongiura la fossilizzazione e costringe a muoversi in fretta, col latente ed insinuante dubbio di incappare in un essere sbucato d’improvviso fuori dalla penetrante nebbia, specie qualora Travis, dopo una prolungata fuga, abbia il fisiologico bisogno di rifiatare.
Interessante l’introduzione di una cospicua serie di oggetti da utilizzare come improvvisate armi a corto e lungo raggio, stile Dead Rising. Ma a differenza del gioco Capcom, l’idea di un corpo a corpo con un’infermiera mutante, o peggio, un quadrupede deforme della grandezza dell’intermo schermo brandendo un televisore non fa sorridere, ed è l’indole capillarmente malsana del titolo a spogliare tale possibilità di qualsiasi parvenza grottesca, rivelandosi anzi una buona alternativa all’uso scriteriato delle munizioni, da centellinare per i nemici più coriacei, come i boss. A ben vedere, tali avversari non impegneranno eccessivamente, visto che, pur resistenti, rimarranno ancorati a dei pattern piuttosto deludenti e basterà aggirarli, tenendosi a debita distanza, e ad intervalli regolari far fuoco per averne ragione, tuttavia almeno la caratterizzazione degli scontri sarà evocativamente aberrante. Stesso discorso per gli enigmi, mai difficili ma stimolanti ed in simbiosi col contesto, incastonati coerentemente nell’ambiente come una sorta di sua naturale protrazione e non un innesto forzato; viceversa i personaggi appaiono poco sviluppati e la loro presenza è per obblighi contrattuali, atta principalmente ad evidenziare l’antecorrenza temporale della vicenda col primo episodio: gli estimatori storici apprezzeranno a prescindere il rivedere dei volti noti, i neofiti un po’ meno. Dei cambi di inquadratura a volte spiazzanti e la lunghezza dell’avventura, contestualizzabile in mezza dozzina di ore, sono gli altri piccoli nei che vanno ad intaccare solo parzialmente il positivissimo quadro generale. Si parla di difetti abbastanza comuni in questa tipologia di videogame; i vari obiettivi da sbloccare e i relativi finali saranno un buon incentivo alla rigiocabilità, unitamente alla possibilità di ottenere nuove opzioni, alcune davvero originali.
Tecnicamente ci si attesta sui soliti ottimi livelli, col terzo capitolo certo ben distante, ma con un ritorno alle atmosfere del primo (la città) e del secondo (gli interni) con dei picchi notevoli (il preambolo della casa in fiamme, con fuoco e fumo resi in maniera magistrale) che rendono questo Origins davvero pregevole. Peccato per il tipico noise effect che sarà possibile disattivare solo terminando il gioco: pur donando l’affascinante illusione di assistere ad un vecchio film con tanto di pellicola sgranata (e il disturbo aumenterà in maniera esponenziale in prossimità di un nemico) sporca forse eccessivamente la grafica, coprendone la pulizia di fondo e impedendone la piena fruizione. Per le musiche e gli FX, nulla di nuovo sotto il sole, lo stile sobrio ma efficace di Yamaoka ormai è noto a tutti, e qui per l’ennesima volta conferma la sua abilità nel riprodurre suoni e musiche mai invadenti che colpiscono nel segno, spesso donando parvenza ritmicamente inquietante anche a quelle location che, a conti fatti, di terribile non avrebbero nulla: un vero e proprio valore aggiunto. Insomma, l’esordio di Silent Hill su PSP è letteralmente sorprendente. Chiunque abbia giocato, finito e conseguentemente amato i primi due saprà cosa aspettarsi da questa versione: un titolo che pur non raggiungendo tali vette di intensità, vi si avvicina in modo tangibile, arrivando a sfiorarle e in molti punti finanche ad afferrarle saldamente. Parafrasandone il titolo, è riuscito a riportare la saga alle sue origini, a quei livelli d’eccellenza di cui solamente i primi due capitoli potevano fregiarsi, e l’ha fatto riproponendo semplicemente la solita specialità della casa, quella mistura di orrore sedimentoso eppure irrazionalmente emotivo che da un po’ di tempo per la Konami sembrava essere in disuso, ma di cui si cominciava ad avvertire maledettamente la mancanza.
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