Così comincia Silent Hill, che non esito a definire IL videogioco horror per eccellenza. Nato come antagonista di Resident Evil, per cavalcarne l’hype e saziare l’improvvisa quanto inaspettata fame di paura del mondo videoludico (e non solo, visto che in seguito sarebbe scoppiato anche il boom cinematografico, con film come The Ring), la sua gestazione fu accompagnata da una certa diffidenza da parte mia perché, appassionato del genere, non vedevo di buon’occhio che i suoi realizzatori nelle interviste dell’epoca si dichiarassero, tanto candidamente quanto ingenuamente, inesperti in materia e ammettessero di essersi fatti una rapida cultura, apposta per la realizzazione del gioco, vedendo film e leggendo libri sul tema. Nulla che lasciasse presagire di poter bissare l’exploit del titolo Capcom. Invece Silent Hill mi fece ricredere nel modo più assoluto. Innanzitutto, bisogna riconoscergli il merito di non essere un semplice clone di RE ma di splendere di luce propria, anche se non nel risultato finale di ogni settore, almeno nelle intenzioni.
La grafica ad esempio è interamente 3D anche negli sfondi e per quanto questi difficilmente superino la soglia della sufficienza (in particolar modo alcuni interni piuttosto spogli), va dato atto al team di programmazione di aver optato per una scelta coraggiosa anche se non del tutto vincente. I personaggi pur non godendo di un dettaglio elevato sono discreti, mentre i mostri falliscono nel tentativo di apparire spaventosi, vista la pochezza poligonale che li caratterizza. Lo stesso frame rate, pur non incappando mai in rallentamenti vistosi, non è fluido come dovrebbe; considerando il buio costante degli interni (da qui la presenza di una torcia elettrica in dotazione) e la nebbia volumetrica delle locazioni esterne (col duplice ruolo di creare atmosfera e mascherare antiestetici effetti di pop-up) che limita il campo visivo e di conseguenza alleggerisce il carico computazionale, si poteva fare di più.
Insomma, il titolo Konami è graficamente mediocre, per contro artisticamente, grazie a certe inquadrature dinamiche della telecamera e alla regia impeccabile di alcune sequenze, merita un plauso. Il sonoro invece vanta delle musiche perfette, adatte e mai invasive, con picchi di originalità nel caso di suoni metallici che si ripetono tanto ritmicamente quanto ossessivamente, per un risultato finale da brivido. Gli FX bissano la bontà delle musiche e completano un comparto audio d’eccezione, vedasi il fastidioso ronzio della scarica elettrostatica della radio portatile, strumento fondamentale per tenere alta la tensione, perché sottolinea la vicinanza di una creatura e, invece di essere una sorta di spoiler che ne rovina l’apparizione, contribuisce ad accrescere l’angoscia dell’attesa.
La giocabilità vive di alti e bassi, in virtù di combattimenti (specie quelli coi boss) che risentono di una certa macchinosità del sistema di controllo e di una telecamera non sempre all’altezza; quantomeno l’uso di armi a corto raggio è realmente fattibile (il coltello di RE? Ma per favore…); gli enigmi sono ottimi e coerenti con l’ambientazione (un paio potrebbero essere anche troppo ostici per i neofiti) e l’esplorazione difficilmente risulta noiosa anche attraversando zone già visitate, perché la sensazione che ci possa essere sempre qualcosa dietro quell’oscurità è opprimente. A tal proposito, l’approccio all’orrore del gioco Konami è diversissimo rispetto al rivale capcomiano: se nel secondo i salti sulla sedia non mancano ma sono spaventi momentanei (del tipo: attraversa un corridoio deserto e all’improvviso da una finestra sbuca un mostro) che colpiscono nel segno certo ma sono, in fondo, un pò banali, qui l’impostazione è più sottile, psicologica. Silent Hill angoscia, perché davvero ci si può aspettare di tutto, dovunque.
Alcune sequenze sono da cardiopalmo e meriterebbero realmente l’oscar e l’idea di ambientare la storia in una dimensione (relativamente) normale e una parallela è fantastica, in particolare quando la stessa locazione presenta, invece del normale mobilio di pochi istanti prima, strumenti di tortura, sangue sulle pareti, incrostazioni di ogni genere. Un po’ come quando, di notte, ci si sveglia e si accende la luce convinti che ci sia qualcosa nella stanza e quelle pareti tanto accoglienti sembrano essere diventate nascondigli perfetti per chissà cosa… sublime. Ancora, la possibilità durante il corso della storia, di visitare locazioni ininfluenti (ma accessorie) alla narrazione, rende l’ambientazione ancor più immersiva e realistica, la presenza di una mini-quest all’interno del plot principale contribuisce ad accrescerne l’intensità (oltre a creare nuovi interrogativi e infittire la trama già di suo tutt’altro che semplice e scontata) e i finali multipli sono da stimolo alla rigiocabilità perché esplicano meglio, anche se non completamente, l’arcano.
Tutto questo tenendo sempre presente che lo splatter è quasi del tutto assente e il disturbo per certe scene è spesso generato più da quello che c’è dietro, impalpabile, che non da ciò che viene effettivamente mostrato... l’orrore di Konami fa riflettere, colpisce alla testa, non allo stomaco, vi si insinua subdolamente e rimane lì fino alla conclusione del gioco… e anche oltre; perchè la vicenda è accomunata, nel suo insieme, da un alone di tristezza, malinconia e, in un certo senso, umanità che segna indelebilmente chi saprà leggere tra le righe di questo capolavoro.