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ID: 258737Può il videogioco assurgere allo status di arte? Quello del rapporto fra arte e videogame è sicuramente uno degli argomenti di critica (videoludica e non) più “caldi” degli ultimi anni, come testimoniano non soltanto le interminabili discussioni portate avanti sui forum virtuali di mezzo mondo, ma anche le sempre più frequenti occasioni pubbliche “a tema” (ultimo, in ordine di tempo, l’evento andato in scena pochi giorni fa a Washington, nelle sale dello Smithsonian American Art Museum: non un’esposizione di giochi o una fiera ma «lo studio di come l’universo dei videogiochi possa interagire con diverse discipline artistiche, influenzando l’arte moderna»). L’indubbia qualità estetico-espressiva di alcune produzioni porterebbe queste ultime a guadagnarsi agevolmente una legittimazione in ambito artistico (e culturale in senso ampio) ma la realtà è che le resistenze a qualsiasi riconoscimento delle opere videoludiche al di fuori dell’ambito del puro e semplice intrattenimento sono ancora molte: negli ambienti accademici si tende a sottovalutare le potenzialità artistiche del medium videoludico e gli stessi canali di informazione, da quello televisivo a quello cartaceo, restano spesso ancorati a pregiudizi duri a morire: non solo i videogiochi vengono spesso sminuiti a passatempo per giovanissimi, ma talvolta li si accusa addirittura di fomentare comportamenti violenti e di “traviare” le coscienze delle nuove generazioni (un po’ come accaduto, agli inizi del Novecento, al cinema). Al di là di questo, il discorso dello status artistico del nostro amato medium è complesso e sfaccettato. Ad esempio è stato sottolineato, a ragione, che, se da un lato qualunque titolo ha dietro di sé numerosi artisti che lavorano al design delle ambientazioni, alla creazione dei personaggi, alle musiche e tanto altro, dall’altro lato manca forse, in molte produzioni videoludiche, un aspetto fondamentale e cioè la consapevolezza della “libertà del mezzo” da parte dell’artista: troppi vincoli imposti dalle esigenze del mercato e dalla volontà di rendere il prodotto fruibile a tutti, troppa paura da parte dei game designers di rischiare e di liberare appieno le proprie capacità espressive anche a costo di non piacere ai publishers e al pubblico (soprattutto in tempi di crisi economica). Fortunatamente, però, non manca chi ha il coraggio di “osare”, cercando di “spostare l’asticella” un po’ più in là e fornendo così ai sostenitori dell’"arte videoludica" validi argomenti a sostegno della propria tesi. Un esempio dei più calzanti è costituito dal recente Journey, terzo titolo sviluppato dalla Thatgamecompany, piccola software house californiana fondata nel 2006 da Jenova Chen e Kellee Santiago in seguito al successo riscosso con Cloud (un loro progetto universitario, oggi scaricabile gratuitamente sul sito ufficiale del gioco) e subito ingaggiata dalla Sony con un contratto di esclusiva. Quest’ultimo prevedeva appunto la realizzazione di tre giochi scaricabili per la sua piattaforma di distribuzione digitale (il Playstation Network) i quali sfruttassero, fra l’altro, i sensori di movimento del joypad PS3 per creare un’esperienza ancora più “immersiva”. Per questo motivo Journey, come già i due precedenti titoli della casa americana, è disponibile unicamente su PSN (12.99 euro il prezzo di lancio sugli store virtuali europei).
Dopo gli abissi primordiali di Flow e le verdi praterie di Flower, questa volta lo scenario nel quale ci muoveremo (perlomeno nelle fasi iniziali) è il deserto. Un deserto sconfinato, ventoso, con una luce accecante. Una volta premuto Start, ci troviamo nei panni di un misterioso essere antropomorfo (che ricorda un po’ nelle fattezze lo Spirito Senza Volto della Città Incantata di Hayao Miyazaki) seduto sulla sabbia e assorto in meditazione, in perfetta solitudine. L’immagine di un joypad in sovraimpressione ci invita a usare la levetta analogica destra per muoverci (e a ruotare il joypad stesso sfruttando i sensori di movimento per controllare la visuale, ma lo stesso comando si può impartire anche, come di consueto, con la levetta sinistra). A parte questo, nessuna istruzione sul da farsi, nessuna introduzione testuale né tantomeno una mappa per orientarci. Ci mettiamo in piedi e il nostro istinto ci porta a dirigerci verso la grande duna poco più avanti, dove scorgiamo alcune lapidi, unici elementi “estranei” in mezzo a tanta sabbia. Una volta raggiunta la cima della duna, partono alcune note musicali e l’inquadratura (in modo alquanto suggestivo) si allarga, facendoci scorgere finalmente ciò che poco prima l’ammasso di sabbia celava al nostro sguardo: una enorme montagna in lontananza, con al centro una fessura luminosissima. E’ subito chiaro che quella montagna sarà il nostro obiettivo, la nostra destinazione. Il viaggio può iniziare.


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Che tipo di videogioco è Journey? Difficile incasellarlo in un genere tradizionale: esso presenta elementi da adventure e da platform e anche qualche sprazzo di stealth game ma possiamo dire che mai come in questo caso l’insieme travalica la somma delle parti dando vita a un’esperienza videoludica sostanzialmente inedita. Forse per capire cos’è Journey può essere utile partire dalla sintetica descrizione promozionale del gioco, leggibile sul sito ufficiale: «Una parabola interattiva, un’avventura online anonima, per sperimentare il passaggio della vita di una persona e i suoi incroci con quello delle altre. Sperimenta la meraviglia. Scopri il viaggio». L’uso del termine parabola mi sembra abbastanza appropriato perché il termine (che deriva dal sostantivo greco parabolè, che vuol dire “confronto”, “allegoria”) veniva usato, in ambito letterario, per designare un racconto breve il cui scopo è spiegare un concetto difficile con uno più semplice o dare un insegnamento morale. E in effetti la narrazione, in Journey, si dipana in modo molto scarno e minimale (lasciando al giocatore la libertà - e il piacere - di ricostruire dettagli più complessi o di rintracciare rimandi ad altre opere o persino ad esperienze di vita dirette) e sembra essere stata concepita “per sottrazione”, così come anche gli elementi grafici dello scenario e le stesse dinamiche di gioco sembrano tutti essere stati sviluppati cercando di togliere più che di aggiungere ed eliminando in qualche modo il superfluo (e questo spiega anche la durata molto limitata del viaggio, intenso ma breve, nonostante i tre lunghi anni di sviluppo – molti per un titolo scaricabile in digital delivery). E di “parabola interattiva” si tratta, se consideriamo l’esperienza di Journey incentrata, più che sul destino del protagonista, sui risvolti esistenzialistici (e che possono essere fatti propri da ciascuno di noi) insiti nella parola viaggio, quasi da romanzo di formazione, per cui è più importante il viaggio stesso della meta. I riferimenti, più o meno velati, ad opere letterarie o cinematografiche incentrate sul mito del viaggio, si sprecano: dall’Ulisse di Joyce, a 2001 Odissea nello Spazio di Kubrick e Apocalypse Now di Coppola, fino ad arrivare alla Divina commedia di Dante. Journey, però, rivisita tale mito in chiave spiccatamente personale, e non soltanto per le peculiarità del mezzo espressivo, quello videoludico (che contiene grosse potenzialità in quanto è in grado di usare elementi caratteristici di altre arti – il cinema, il fumetto, la fotografia, il romanzo, la pittura – aggiungendovi un fattore in più: l’interazione) ma anche per la particolarità della vicenda narrata, della quale vengono forniti, in modo frammentario e allo stesso tempo elegante, degli elementi di cui tocca a noi ricostruire mentalmente genesi e ruolo (rovine e templi diroccati che sembrano appartenere a una antica civiltà scomparsa, degli esseri eterei che presentano le stesse sembianze del protagonista ma rispetto a lui di dimensioni più grandi e di colore chiaro anziché scuro – probabilmente le anime dei suoi antenati - , delle poco rassicuranti lapidi sparse lungo il cammino a suggerirci che altri “viaggi” in passato non sono andati a buon fine…).
Il gameplay di Journey si riduce a due tasti: la x per effettuare dei salti (che a volte danno la netta sensazione di volare, e il piacere quasi ancestrale che se ne può trarre è notevole) e il cerchio per emettere suoni. La prima delle due abilità non sarà disponibile fin da subito ma solo dopo aver incontrato un misterioso simbolo luminoso (cosa che avverrà comunque nelle fasi iniziali) il quale aggiunge per magia al nostro abito un lembo di sciarpa che ci conferisce appunto questa capacità e che, in seguito al ritrovamento di altri simboli simili, si allungherà ulteriormente permettendoci così di spiccare balzi più alti e lunghi. Inutile dire che questo fattore incentiverà l’esplorazione, alla ricerca dei simboli in questione, alcuni dei quali ben celati dagli sviluppatori. Tale esplorazione non sarà totalmente libera ma anziché degli antipatici “muri invisibili” Jenova Chen e soci hanno ideato una soluzione più intelligente e funzionale al contesto: delle raffiche di vento ci impediranno di superare i pur estesi confini virtuali avvisandoci che da quella parte non potremo proseguire il percorso. Dunque tenendo premuta la x ci libreremo in volo ma ciò avviene per una durata limitata. Sarà necessario perciò “ricaricare” la nostra sciarpa per effettuare un nuovo salto e per farlo basterà avvicinarci a uno dei vari brandelli di stoffa che incontreremo durante il cammino e che sono fatti evidentemente dello stesso tessuto della sciarpa.

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La seconda abilità a nostra disposizione è quella collegata al tasto cerchio e consiste nell’emettere un suono (unico mezzo di espressione del nostro alter ego, che non parla) in grado di provocare uno spostamento d’aria proporzionale alla durata di pressione del tasto (molto bello e realistico l’effetto di questo spostamento d’aria sulla sabbia) e che permette di interagire in vario modo con alcuni elementi dello scenario. I pezzi di stoffa, ad esempio, risponderanno al suono avvolgendoci e spingendoci a mò di trampolini permettendoci così di librarci più in alto e più in profondità di quanto non potremmo fare normalmente. Inoltre il suono emesso ci servirà a illuminare degli strani oggetti di pietra e questo provocherà due tipi di conseguenze: in alcuni casi svelerà delle iscrizioni murarie spesso abilmente nascoste dagli sviluppatori all’interno di rovine o, magari, dietro una cascata di sabbia (altro fattore, dunque, che invoglia all’esplorazione, oltre ai simboli luminescenti), in altri casi servirà ad aprire gli enormi cancelli posti al termine delle varie locazioni. La giocabilità è pressappoco questa. Non ci sono particolari oggetti da raccogliere e riporre in un inventario né complicati enigmi da risolvere né tantomeno nemici armati da sconfiggere. A tal proposito riporto le parole di Chen, il quale in un’intervista di qualche tempo fa dichiarò che l’idea alla base di Journey era quella di creare un titolo che superasse «la solita mentalità “sconfiggi, uccidi, vinci”». Nel gioco non si può neppure morire: le sentinelle volanti che incontreremo di tanto in tanto e che “scansionano” con la loro luce blu alcune aree di gioco, se e quando riescono a individuarci, dopo aver mutato il colore della loro luce da blu in rosa, possono al limite scagliarci a distanza e strapparci alcuni preziosi lembi di sciarpa che ci permettono di volare più in alto, ma non ci causeranno un game over: saremo comunque in grado di proseguire il nostro cammino, e poco dopo ci sarà data la possibilità di riallungare la sciarpa divelta. Quindi giocabilità semplice e minimale, ma comunque non ai livelli di un film interattivo o di un laser game. Anzi, un’interazione con l’ambiente ci viene richiesta eccome (seppur nei termini descritti prima) ma l’impressione è che gli sviluppatori abbiano inteso utilizzare l’interazione stessa, più che come un motivo di sfida (in termini strettamente videoludici), come una leva per suscitare emozioni. Ed è proprio sul fronte emozionale ed artistico che Journey mostra tutto il suo potenziale: durante il (poco) tempo che dura, il titolo della Thatgamecompany dà quella impagabile sensazione di vivere un sogno, uno di quei sogni da cui non vorremmo mai svegliarci (anche se in alcuni momenti, come le fasi stealth con i mostri volanti, il sogno assume connotati inquietanti, quasi da incubo). Ecco, Journey può essere anche definito una esperienza onirica. Poi, ovviamente, esso è un viaggio: prima di tutto metaforico ed esistenziale, come accennavo prima. Il viaggio del protagonista può essere accostato, con un po’ di fantasia, al percorso di vita di tutti noi, con i suoi momenti di felicità, di sconforto e di speranza. La montagna che si staglia sullo sfondo rappresenta chiaramente l’Obiettivo ma anche, se vogliamo, il Desiderio (entrambi possono essere diversi da persona a persona). Qualcuno potrebbe ricavarci anche significati filosofico-religiosi (la Montagna come entità sacra?). Di certo la libera interpretazione del giocatore è stimolata, anche perché, come anticipavo prima, la narrazione viene portata avanti in maniera volutamente scarna (ma allo stesso tempo efficace) attraverso brevi sequenze animate prive di testo, costituite per lo più da evocativi pittogrammi che forniscono informazioni sulla storia del posto e sulla civiltà antica di cui presumibilmente il misterioso protagonista fa parte, e lasciando alla nostra immaginazione la libertà di formulare ipotesi su quale sia il suo (nostro) ruolo con riferimento alla civiltà scomparsa e quale il significato del suo (nostro) viaggio. La vaghezza della narrazione (apprezzabile anche perché condotta con gusto e capacità evocativa nella scelta dei pittogrammi e dell’accompagnamento musicale) mi ha fatto venire in mente, con le dovute differenze, gli stralci di lettera, altrettanto vaghi e suggestivi, di Dear Esther. Anche qui abbiamo una narrazione minimal ed evocativa (anche se affidata comunque alle parole, mentre in Journey solo alle immagini e alla musica) e un substrato artistico-letterario che dà maggiore spessore e maturità all’esperienza videoludica.

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Ma l’aspetto che più colpisce in Journey è sicuramente l’ispiratissimo stile grafico che, insieme alle variegate musiche, fa la parte del leone nel ricreare l’atmosfera giusta. Se il titolo della Thatgamecompany è un “viaggio emozionale” che colpisce dritto al cuore, ciò lo si deve soprattutto alla formidabile maestria dei grafici e dei compositori. Va detto che in Journey, contrariamente alla tendenza oggi predominante in ambito videoludico, non si cerca un realismo esasperato (se non nella avanzatissima fisica che regola il comportamento della sabbia), piuttosto si persegue uno stile a metà fra il realistico e il “cartoonoso”, utilizzando ora colori brillanti pastello ora tinte più dark e fredde. Basta un cambio di illuminazione, di colori e di strutture e ci si ritrova in un luogo completamente diverso, con l’unico denominatore della sabbia (sostituita dalla neve a un certo punto) che è probabilmente la sabbia più bella mai vista in un videogioco, insieme a quella che abbiamo potuto ammirare in Uncharted 3. Al di là della sabbia, alcune locazioni e alcuni scorci lasciano davvero a bocca aperta. Credo che si possa parlare in questo caso di grafica in grado di emozionare, un po’ come sa emozionare la visione di un bel quadro. Le immagini in foto non rendono giustizia alla bellezza dell’impianto grafico di Journey in movimento, che richiama a ben vedere, più che i precedenti giochi della Thatgamecompany (omaggiati comunque chiaramente in un paio di momenti che non svelo per non rovinare la sorpresa e che i fan di vecchia data rintracceranno facilmente ricavandone un piacevole dèjà-vu), i lavori del Team ICO, soprattutto Shadow of the Colossus, rievocato anche dall’uso delle sentinelle volanti (che ricordano da vicino uno dei colossi del capolavoro targato Fumito Ueda). Il tutto condito da un fattore aggiunto mutuato dalla cinematografia e cioè una fotografia estremamente curata: in Journey si alternano momenti a telecamera libera ad altri in cui invece essa è “guidata”, al fine di indirizzare lo sguardo del giocatore (in maniera mai banale e allo stesso tempo sempre naturale, non forzata) su un elemento importante dello scenario che altrimenti potrebbe passare inosservato o semplicemente su un panorama bello a vedersi, come quando, mentre scivoliamo sulla sabbia sotto un porticato, la visuale si sposta lateralmente, a sottolineare il coreografico tramonto sullo sfondo. Fantastico.
Svolgono egregiamente il loro compito le musiche, composte da Austin Wintory. Basate in gran parte sugli archi e sui bassi (soprattutto in corrispondenza delle fasi desertiche), mai invadenti, si mostrano comunque piuttosto varie, sempre adatte alle varie situazioni e tese a suscitare, di volta in volta, serenità, liricità, malinconia, speranza, inquietudine, sconforto, sollievo. Ottimi anche gli effetti sonori ambientali, con il fruscio della sabbia, il sibilo del vento e quant’altro che risultano molto convincenti.
Veniamo ora ai “difetti” del gioco, o quantomeno agli aspetti criticabili da qualcuno: la longevità ridotta e il livello molto basso della difficoltà. Quanto al primo, l’avventura è, come si accennava prima, molto breve (due ore abbondanti, che diventano circa tre se vogliamo esplorare tutto l’esplorabile) e questo potrebbe lasciare inizialmente con l’amaro in bocca. Poi però ci si rende conto che l’esperienza di gioco è così intensa e allo stesso tempo armoniosa e ben bilanciata che una durata in linea con quella canonica dei videogiochi sarebbe stata poco consona e avrebbe probabilmente diluito troppo la carica emotiva insita nell’esperienza stessa. Comunque una volta conclusa per la prima volta l’avventura, non mancherà la voglia di reiniziare il viaggio (magari per ottenere qualche trofeo nascosto) anche se il continuo senso di stupore e di meraviglia della prima volta sarà in parte svanito (e per questo consiglio di prendervela comoda nella prima run e di gustare il gioco come si assapora un vino d’annata). Quanto al secondo elemento di critica (cioè la bassa “sfida” in termini strettamente videoludici) va detto che anche qui si tratta più che altro, a ben vedere, di una scelta ponderata degli sviluppatori che hanno deciso di porre l’accento sulle componenti artistico-emozionali del titolo piuttosto che su quelle tipicamente ludiche (anche se a mio avviso un livello di sfida più alto e allo stesso tempo ben implementato non avrebbe stonato, anche per sottolineare maggiormente i momenti di difficoltà e di sconforto del viaggio).
Una menzione a parte merita poi il multiplayer di Journey, molto distante dalle dinamiche competitive (ma anche cooperative) solitamente usate nei videogiochi degli ultimi anni. Una volta che ci si è connessi a internet e che si sono accettati i termini di servizio e le condizioni d’uso all’inizio del gioco, si inizierà una partita in cui sarà possibile, di tanto in tanto, imbattersi in qualche altro giocatore: personaggi con le nostre stesse fattezze ma senza nickname in sovraimpressione e con cui potremo comunicare nell’unico modo concesso al nostro avatar e cioè emettendo suoni. Se ne può incontrare soltanto uno per volta e non si possono invitare amici, al contrario di quanto accade normalmente nei giochi online. Citando di nuovo Jenova Chen, «…si tratta di due sconosciuti che si incontrano online. Essi non sanno chi sono o che età hanno. Tutto ciò che sanno è che dall’altra parte c’è un altro essere umano”. Una volta incontrato un altro giocatore, dunque, si è liberi di proseguire in coppia lungo il percorso come anche di ignorarsi del tutto, però va detto che il clima di solitudine invita alla vicinanza e alla cooperazione. Quest’ultima si concretizza, oltre che nella opportunità di aiutare il proprio compagno di viaggio nella ricerca di glifi e simboli luminosi (ad es. usando il suono per segnalargli qualche anfratto nascosto che era sfuggito alla sua attenzione), anche nella possibilità di “ricaricargli” la sciarpa (ciò è necessario – ricordiamolo - per effettuare altri salti dopo che l’abbiamo “scaricata”). Va detto anche che la cooperazione non è mai necessaria perché si riesce sempre e comunque a proseguire l’avventura da soli. Tuttavia la condivisione di momenti e situazioni ha il merito di attenuare quell’imperante (e a tratti soffocante) senso di solitudine che caratterizza l’esperienza di gioco in single player - anche se, come detto, non ci è dato di conoscere da subito l’identità del nostro compagno di viaggio (identità che ci verrà svelata soltanto dopo i titoli di coda) – dando così un valore aggiunto all’avventura dal punto di vista emotivo-poetico e permettendo a Journey di svolgere ancora meglio il suo compito di “viaggio emozionale” e di rimanere impresso come un marchio a fuoco nella memoria di chi ha avuto la fortuna di aver “viaggiato” con esso.


COMMENTO FINALE


"Dopo Flow e Flower, Journey è probabilmente il “capolavoro della maturità” della Thatgamecompany e allo stesso tempo uno dei pochi videogiochi che possono essere tranquillamente accostati al concetto di “arte” senza essere tacciati di eresia.
Il mito del viaggio, antico topos letterario e cinematografico, trova una nuova incarnazione, e lo fa avvalendosi appieno delle potenzialità di un medium giovane, come quello videoludico, ma già in grado, se in buone mani, di rivaleggiare con quelli tradizionali in quanto a potenza espressiva e valenza estetica.
Un impianto tecnico e scenografico da applausi, una giocabilità scarna ma funzionale e una sapiente direzione artistica connotano un prodotto di alta qualità, venduto peraltro a prezzo budget.
Questo “viaggio emozionale” di due-tre ore rappresenta un’esperienza irrinunciabile per tutti coloro che da un videogame non si aspettano soltanto scazzottate e sparatorie."


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