Per l'Ovest con ritorno
Non parliamo della carriera del regista, da tempo felicemente ancorata in territorio americano, ma dell'influenza stilistica scatenata da Woo. Il bullet time è diventato parte integrante del linguaggio del cinema d'azione, trovando clamorosi consensi in Matrix ma sfondando anche nel mondo dei videogiochi nel 2001 grazie ad un prodotto completamente europeo: Max Payne. L'implementazione escogitata dai ragazzi finlandesi della Remedy fu a sua volta molto influente e si traduceva in una telecamera in terza persona che inquadrava le gesta di un ispettore americano atto a sgominare una banda dedita allo spaccio di droga che lo aveva coinvolto personalmente. La centralità delle sparatorie era assoluta, ma l'approccio ad esse non era quello classico (del tempo) a base di soli "strafe", semplici movimenti laterali, in ragione di una portentosa virata sulla spettacolarità dettata dalla possibilità di tuffarsi, gesto che innesca, appunto, il bullet time: l'immagine rallenta ma non i riflessi del giocatore che dilata il tempo a disposizione per scatenare un inferno di proiettili. Da Max Payne in avanti, il bullet time ha dilagato in quasi ogni tipologia di gioco, con il caso limite dei giochi di corse, con qualche rivisitazione.
L'invenzione di John Woo, però, era destinata a tornare dal suo creatore che in occasione di questo Stranglehold, si pone nella posizione di creditore e debitore allo stesso tempo rispetto al gioco della Remedy, dato che nel riappropriarsi delle sequenze al rallentatore trascina con sé anche tutto il know-how del genere TPS che Max Payne aveva diffuso nel videoludo.
Uccisioni e demolizioni
Il titolo della Midway, però, ci mette davvero qualcosa di suo, in primis una vera overdose di nemici. Tutto il gioco è diviso in settori non formalmente annunciati dalla sceneggiatura, ma tutta l'esperienza sarà fatta di avanzamenti in scenari prevalentemente al chiuso che ad un certo momento bloccheranno le proprie uscite per sottoporci ad una determinata quantità di ondate nemiche. Non siamo molto distanti dalle "waves" dei primi fixed shooter, dato che cambia il genere ma non il succo: la situazione tipica ci vedrà entrare in una stanza mentre di colpo si chiudono tutti gli accessi, ad eccezione di alcune porte dalle quali escono ad ondate, appunto, dei nemici che seguiranno di volta in volta formazioni e schemi d'attacco specifici fino al loro esaurimento, dopodiché ci verrà dato accesso ad una nuova zona del livello, in un vero e proprio festival dello script. Nonostante si possa credere che ciò sia la norma nella categoria FPS/TPS, il level design di Stranglehold è assai più vincolante e schematico che altrove. Per nostra fortuna c'è un elemento che restituisce un bel po' di pepe agli scontri: la considerevole distruttibilità degli scenari, che rappresenta il più rilevante elemento di distacco da Max Payne.
Quasi tutto ciò che compare sul video potrà essere abbattuto per puro godimento personale o per strategia, considerando che si spazia dallo scontato barile esplosivo che può liberarci da qualche nemico a balconate da far precipitare, fino a cartelli da buttar giù per guadagnare un ottimale angolo di tiro.
Who's Woo?
Beh, più che altro bisognerebbe chiedersi "Where is Woo?". A parte il piacevole cameo che svolge nello shop del gioco, dove riveste lo stesso ruolo di gestore di un bar proprio come in Hard Boiled, la sensazione che si ricava giocando a questo prodotto è che il regista hongkonghese abbia rivestito al massimo un ruolo di consulente o "avallatore" di soluzioni, com'era giusto che fosse considerando la sua totale inesperienza in fatto di game design. Inoltre, non dev'esser stato neppure molto d'aiuto nella stesura dello storyboard dato che nelle sue pellicole l'opulenza degli scontri a fuoco verteva attorno ad una narrazione molto strumentale. Allora, dove possiamo trovare l'impronta di Woo? In tutto ciò che i ragazzi della Tiger Hill si sono inventati per scatenare lo spettacolo. Della devastazione conseguente agli scontri ne abbiamo già parlato, mentre non abbiamo fatto ancora nessun riferimento alle "mosse speciali" di cui può vantarsi Tequila. Mentre ci aggireremo negli scenari potremo spesso notare come il gioco ci segnali tramite un alone luminoso alcuni oggetti come ringhiere, lampadari, carrelli: azionando il tasto del salto ci fionderemo su di essi producendoci in un gesto spettacolare che innescherà immediatamente il bullet time e che ci consentirà di guadagnare più rapidamente i "punti stella". Questi ultimi servono a dare a Tequila la possibilità di utilizzare altri attacchi speciali come un colpo di precisione, una parziale invulnerabilità accompagnata da un aumento del nostro volume di fuoco oppure una sorta di "smart-bomb" che vedrà il nostro eroe roteare fino all'eliminazione di ogni cattivo del settore. Interessanti alcuni frangenti di gioco in cui dovremo sbarazzarci di alcuni nemici a distanza ravvicinata: l'azione rallenta, Tequila viene inquadrato molto più da vicino e dovrà centrare in poche frazioni di secondo i nemici, potendo solo inclinarsi a destra e sinistra per schivare i proiettili. In generale, tuttavia, la grossa differenza tra le azioni sconsiderate di Tequila in Hard Boiled e quelle in Stranglehold è che le prime gli servivano per venire a capo di situazioni disperate, le seconde per "fare punti": ciò vuol dire che ci sentiremo dei veri idioti a passeggiare su un corrimano, come bersagli umani, per guadagnarci un attacco speciale e non per ammazzare meglio i nemici, alla faccia del coinvolgimento. Da sottolineare, però, l'ironica presenza delle colombe nelle sequenze più spettacolari, vero marchio di fabbrica del regista!
L'importante è che sia divertente!
E se non lo fosse? Stranglehold non è un cattivo videogioco, ma una cosa è certa: per quanto paradossale, il suo pregio è di esser corto. Nelle sette missioni che dovremo affrontare, tutte dalla durata inferiore all'ora, dovremo fronteggiare la stessa passerella di nemici sempre uguali con pochi e pretestuosi elementi di rottura: ci potrà capitare di abbattere un elicottero, di far saltare postazioni per raffinare droga o di controllare un mitragliatore in volo, ma queste varianti risulteranno pedanti intralci all'azione standard che rimane comunque la parte meglio realizzata. Per quanto monotone, le sparatorie vantano l'indiscutibile pregio del ritmo, col giocatore che verrà incastrato nel frenetico "swap" tra bullet-time e velocità normale, con una furiosa caccia all'headshot seguita da repentine fughe in attesa di ricaricarsi. Il resto lo fa la massa di avversari che dovremo affrontare, puntualmente smisurata. I primi livelli sono utili per prendere confidenza coi comandi e con la filosofia del game design, ma sarebbe coraggioso definirli belli o esaltanti. Il meglio, per nostra fortuna, arriva a metà dell'esperienza, all'interno di un enorme garage in cui i nemici spuntano come funghi, in una staffetta tra colonne e muretti per ripararsi come se fosse uno spin-off di Time Crisis. Da qui in avanti gli eventi si susseguono ad un ritmo più incalzante, come uno sprint verso la soluzione finale, risolvendo la sceneggiatura con tempistiche più da film che da videogioco. La chiusura delle ostilità giunge un attimo prima che la nausea trasformi un'esperienza prevedibile ma divertente in un chiassoso ed estenuante parapiglia: Stranglehold molla la corda un attimo prima che si spezzi, ma gli opportuni ending credits non giustificano una longevità inadeguata ad un titolo venduto a prezzo pieno.
Mid-generation
Giunto sul mercato nel 2007 in triplo formato PC-X360-PS3, Stranglehold, come molti altri suoi contemporanei, ha vissuto il suo sviluppo mentre la nuova generazione di console muoveva i primi passi ed i PC tardavano ad adeguarsi a configurazioni ad esse comparabili. Il reparto grafico, per logica conseguenza, mostra tutti i segni di una conoscenza ancora immatura del nuovo hardware: abbondano le costruzioni molto geometriche, con edifici che non sono molto più che cubi texturizzati, e le stesse tessiture sono di qualità altalenante, caratterizzate da una facile tendenza a sgranare. Per fortuna ci sono gli arredamenti, per giunta distruttibili, che si traducono, qualche volta, in scenari ugualmente godibili come nel caso del museo. Il modello di Chow Yun-Fat è prevedibilmente il più curato e gode di tanti poligoni ed un buon repertorio di espressioni facciali, così come, purtroppo, di un'apparenza "cerosa" dovuta alla pacchiana rifrazione della luce di sangue e sudore, per non parlare dei capelli in stile "Playmobil". Probabilmente per accondiscendere alle esigenze del motore tridimensionale per mantenere un buon framerate, i nemici, sempre molto abbondanti di numero, vantano un dettaglio che non impressionerebbe nemmeno su una PS2: sono spigolosi e sfocati, ma vale la pena lamentarsi anche dell'eccessiva somiglianza che li caratterizza, non una goduria in un videogame pseudorealistico. Buone le performance musicali: rimane impresso il tema principale "Essence of Tequila", ripreso anche in occasione delle mosse speciali, ma l'accompagnamento generale si distingue per discrezione e competenza, non solo nella falsariga solita del genere action-poliziesco grazie alla sua vocazione a supportare, con la prontezza richiesta da un videogioco, i passaggi più intensi dell'avventura.