Abbiamo da sempre teorizzato un futuro distopico, ancora di più da quando Philip K. Dick ci ha inondato delle sue opere. Capolavori incentrati su spietate megacorporazioni, tecnologia al servizio della corruzione, plebe abbandonata a sé stessa e uomini speciali sfruttati come pedine e poi cestinati. Chi è sano di mente non può che guardare all’effettivo presente come ad una tendenza più a questo distopismo che alla maturità sociale dei migliori sognatori e sdrammatizzando non possiamo che rilevare un tempo buio anche per la vecchia scuola del videogioco. Paradossalmente, chi è dalla parte degli utenti è nella condizione migliore: la scelta si è fortemente variegata, i mezzi digitali hanno permesso alle aziende senza spalle particolarmente coperte di ottenere una visibilità dignitosa e di poter competere direttamente con i giochi dei colossi del videogaming con risultati spesso sorprendenti. I grossi calibri come Electronic Arts si sono ritrovati con il solito fior fiore di sviluppatori ed un carnet di proprietà intellettuali di assoluto prestigio, ma anche con strutture vecchie, pesanti e relativamente inadeguate per competere in un mercato che guarda con crescente diffidenza alle cosiddette produzioni AAA offerte ben sopra i 50 euro, le quali si configurano spesso come prodotti dal profilo largamente scontato. Pagare tanti soldi per un gameplay prevedibile, ma la nascita di un classico non passa quasi sempre dall’innovazione?
Era il 1993 quando la Bullfrog era già uno dei team di maggiore talento al mondo, capitanata da una coppia di designer strepitosi: il noto Peter Molyneaux e il meno ricordato Sean Cooper. Il primo si dedicava ai cosiddetti god-games come Populous, acclamatissimi, mentre il secondo lavorava da gregario, collaborando con poca enfasi anche dopo il suo oscuro gioiellino Flood. Stava preparando, tuttavia, il capolavoro della sua vita: Syndicate. In una città che sembra uscita direttamente da Blade Runner, un commando di quattro agenti speciali agisce per conto di una corporazione in perenne conflitto con altre nel tentativo di sabotare piani, uccidere personaggi chiave e imporsi come leader dello sviluppo tecnologico. Il gameplay è poliedrico e prevede un cuore da RTS vagamente action con un background gestionale, essenziale quanto capace di garantire profondità all’esperienza grazie alla scelta degli equipaggiamenti e degli oggetti da ricercare. Sul mercato si rivelò un successo planetario nelle iniziali edizioni Amiga e PC (quest’ultima addirittura in “alta risoluzione” 640x480) per poi approdare persino su una moltitudine di console dalle ordinarie Megadrive e Super Nintendo alle ben più esotiche 3DO e Jaguar, anche se con un’accoglienza meno calorosa. La formula è rimasta concettualmente carismatica negli anni, ma la mediocre prestazione commerciale di Syndicate Wars del 1996 su computer e console ha molto raffreddato l’entusiasmo del publisher Electronic Arts nel finanziamento di nuovi progetti correlati. Almeno fino al 2012.
Il reboot di Syndicate, firmato da Starbreeze Studios per Electronic Arts, nasce da una crisi del mercato videoludico tradizionale e sfocia in una contraddizione: riesumare una vecchia gloria per catalizzare l’attenzione e rivisitarne la struttura per abbracciare il più ampio pubblico possibile pur allontanandosi dalle qualità originali. Un offuscamento dell’identità è una conseguenza logica. Alla fine quel che rimane pressappoco condiviso con la prima uscita è il setting radicato in un futuro abbastanza prossimo, il 2069, in cui la scienza ha compiuto dei progressi incredibili in fatto di potenziamento umano per mezzo di elettronica dedicata. Nella fattispecie, le energie dei grandi gruppi di ricerca si focalizzano sulla costruzione di chip di supporto che amplificano le capacità cerebrali e fisiche dei soggetti che li montano, in maniera da sfruttare una perenne connessione al cloud informatico globale dal quale scaricare informazioni su persone, fatti ed oggetti. I ricercatori più brillanti vengono arruolati dalle megacorporazioni, proprio come Lily Drawl ingaggiata dalla Eurocorp per la quale ha perfezionato il DART6, chip che viene per la prima volta installato nell’agente Kilo, il nostro avatar. Kilo è l’equivalente di Gordon Freeman di Half-Life 2, ovvero di una telecamera relativamente passiva sul mondo virtuale: è totalmente muto, con un passato ridotto ad una manciata di informazioni ma è dannatamente scaltro con le armi. Le prime battute di gioco prevedono alcune missioni di test per valutare l’affidabilità del nuovo apparato elettronico, dopodiché si verificherà un prevedibile degeneramento delle situazioni che metterà pepe sulla trama.
Il nuovo Syndicate provoca un senso diffuso di costrizione al giocatore e ciò avviene su più piani. La sceneggiatura verte sulle vicende di tre character principali oltre al nostro con un limitatissimo coinvolgimento di figure terze e la EA ha cercato di fare il possibile per caricare questi di attrattiva: Lily Drawl viene doppiata nientemeno che da Rosario Dawson, attorno alle quali fattezze viene persino modellata, ma è un volto conosciuto anche quello di Brian Cox che interpreta il signor Denham, architetto delle malefatte della Eurocorp, mentre lo è un po’ meno Michael Wincott, tuttavia eccellente nel doppiaggio del nostro spietato collega Merit. Tre elementi sui quali costruire una storia sono davvero pochi ed il nuovo Syndicate, forse anche per ingenuità della Electronic Arts, arriva in giorni in cui lo sci-fi è stato sublimato da titoli di primissimo rilievo quali Deus Ex: Human Revolution e la trilogia di Mass Effect che approcciano le medesime atmosfere con ambizioni prepotenti. Il lavoro della Starbreeze sembra quasi una versione redux degli stessi nei temi e nelle possibilità concesse al giocatore. La sceneggiatura è suddivisa in “milestones”, venti per la precisione, che se fossero state pensate in rappresentanza di altrettante missioni avrebbero fornito una longevità quantomeno dignitosa. Purtroppo, le sezioni sono di lunghezza variabile ed alcune milestones prevedono semplicemente un po’ di conversazione, tra l’altro passiva, per un totale di una dozzina di livelli degni di essere considerati tali, la cui durata media raramente sfora la mezzora. Proprio la suddivisione molto netta in stage non vale come vessillo di modernità e fa malamente il paio con la concezione a mo’ “di corridoi” degli stessi: al giocatore spetta solo attraversarli in maniera estremamente lineare sbarazzandosi dei nemici che gli si pareranno davanti. In Syndicate non arriva mai aria al cervello, tanto a causa degli ambienti “sigillati” quanto per l’aridità di potere concesso al giocatore: si fa quel che è previsto secondo le modalità imposte, punto.
La rigidità è un elemento che stona terribilmente di fianco al logo di Syndicate ma che è in realtà una peculiarità di buona parte degli FPS, soprattutto quelli di vecchia scuola ai quali, però, il titolo in esame non vorrebbe essere associato. Ciononostante, il necessario per uno sparatutto in piena regola non manca ed il nostro Kilo potrà portarsi dietro un massimo di due armi per volta a prescindere dall’ingombro, peccato non via particolare possibilità di scelta. Col proseguire dell’avventura, fra l’altro, avrà modo di approfondire le potenzialità del suo chip DART6 che gli consentiranno di interagire con alcuni apparati elettronici costituenti lo scenario come valvole, porte, torrette difensive. Nulla di clamoroso anche in questo caso dato che chi ha memoria ricorderà le stesse cose a partire dall’anziano System Shock, la differenza è che in Syndicate tutto è sequenziale e spesso obbligato, sottraendo al giocatore l’atto creativo di un assalto secondo le proprie vocazioni ed abilità. Come se non bastasse, la presenza di eventuali hot-spot è rimarcata da indicazioni a prova di imbecille.
Presenti anche i poteri mentali, seppure siano appena tre: il suicidio, il backfire (una specie di stordimento) e la conversione di un nemico alla nostra causa. L’esiguo numero è motivato dalla brevissima durata del gioco che ci permetterà di usufruirne pienamente in rare occasioni anche a causa di una manciata di livelli in cui il nostro chip sarà giocoforza disattivato. E’ presenta una modalità di visualizzazione dell’ambiente alternativa a quella classica che fa leva sui potenziamenti cibernetici applicati a Kilo che gli consentono di scannerizzare l’ambiente alla ricerca di nemici fuori dal campo visibile, magari nascosti dietro delle casse, con un contemporaneo aumento della reattività del nostro avatar che viene implementata a livello ludico con un rallentamento della velocità di movimento dei nemici. La legittima speranza di ogni fan di Syndicate era che anche in questa forma di FPS fosse presente l’adorato Persuadertron che permetteva di reclutare comuni cittadini nelle proprie fila, magari in una nuova forma con poteri espansi ed invece l’unico momento in cui questo aggeggio viene citato è durante un singolo dialogo di natura assolutamente secondaria. Un’occasione veramente sprecata. Il mission design, per logica conseguenza, è fin troppo ordinario ed oltre ai percorsi obbligati presenta nemici dal modello comportamentale prevedibile in quanto visto e rivisto, purtroppo anche nell’incapacità di mantenere in maniera efficace una posizione di copertura. Lo sviluppatore Starbreeze ha comunque puntato tutto sull’elevato numero di soldati alla nostra caccia, con frangenti di notevole confusione, peccato poi che la quantità si abbini ad una generale timidezza con nemici che tendono a mantenere la posizione per assalirci con scarsa frequenza e soprattutto non in massa. Spesso è facile individuare come il tutto sia strutturato ad ondate manco ci trovassimo davanti a Robotron: per qualche ragione gli accessi ad una sala o ad un piazzale si bloccano per aprirsi esclusivamente in occasione dell’entrata dei soldati, i quali una volta sterminati lasceranno spazio ad altri più agguerriti per culminare magari con uno dei pochissimi boss. Ciò avviene in più occasioni, con buona pace del coinvolgimento, dell’imprevedibilità, della modernità.
Esiste un aspetto in cui il nuovo Syndicate convince appieno: il reparto audiovisivo. Il team Starbreeze propone, come abbiamo detto, ambienti di limitato respiro che però sono stati modellati con buona cura, nonostante la palette adottata sia cromaticamente sterile come spesso si conviene nel filone sci-fi. Il lavoro più encomiabile è stato svolto in fatto di visual style in quanto tutto il mondo che percorreremo arriverà agli occhi del nostro avatar rivisitato dal suo HUD, head-up display, in pratica un visore che accosterà ad ogni elemento una piccola icona descrittiva e qualche dettaglio testuale. Bellissimo e credibile in quanto così poco invasivo da poter credere in un futuro di realtà aumentata applicata in una maniera simile. Di sicuro impatto anche l’intenso effetto di diffusione luminosa che “acceca” il giocatore ogniqualvolta incroci una fonte particolarmente intensa come il sole che oltrepassa una vetrata, stratagemma abusato forse anche per coprire convenientemente una profondità di visuale non troppo spinta. A tal proposito occorre dare i meriti agli Starbreeze di avere ottimizzato a dovere l’engine che garantisce una fluidità sorprendente anche al massimo dettaglio su sistemi di fascia media. Qualche remora per i modelli 3D che se non difettano in poligoni appaiono piuttosto anonimi nel design e nell’espressività, un peccato considerando la disponibilità di veri attori a fare da modelli, Rosario Dawson in primis.
Decisamente gradevole anche il fronte audio, a partire da un doppiaggio di primissimo livello che rende giustizia alla competenza delle voci adottate per chiudere su una soundtrack che probabilmente non guadagnerà un ascolto separato ma che calza perfettamente al ritmo di gioco. Ciò è stato possibile grazie all’opera di professionisti affermati come Gustaf Grefberg che si impose come uno dei guru della scena musicale amighista col nome di Lizardking, arrivando al punto di creare un sottogenere della chip music noto come Doskpop, ma è doveroso citare la title music del dj Skrillex, un tizio che nell’ultimo anno si è portato a casa la bellezza di tre Grammy.
Syndicate - PC - PS3 - XBox360
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- Pubblicato: 11-08-2012, 12:10
- 4 commenti
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Syndicate
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Interessantisima quanto ben redatta recensione su un titolo che, a conti fatti, nasce da un paradosso, ovvero il riproporre un first-person shooter lineare... intitolandolo Syndicate. In generale gli sparatutto di questo tipo possono anche essere piuttosto divertenti e sostanzialmente in linea con i gusti di chi predilige fps senza particolari complicazioni, nè fronzoli narrativi... ma, a questo punto, viene meno qualsiasi valida motivazione per richiamare in causa a sproposito il classico Bullfrog. Ovviamente, a questo punto, sarà facile pensare ad un "rispolvero" del titolo "Syndicate" con intenti meramente commerciali... ma anche questa finalità è discutibile, visto che i fan del titolo del 1993 non avranno certamente gradito e tutti gli altri saranno probabilmente rimasti indifferenti. Incomprensibile...Ultima modifica di AlextheLioNet; 11-08-2012, 12:46.
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Bella recensione, musehead, mi piace molto il tuo modo di scrivere.
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recensione perfetta...!!!! E RIBADISCO A GRAN VOCE...IL GIOCO PERDE TOTALMENTE PER IL DISTACCO MASSICCIO DALL'ORIGINALE...!! HANNO ABUSATO DEL NOME SYNDICATE INNAPPROPRIATAMENTE..!!!
SYNDICATE è TUTT'ALTRO...secondo me ERA IL PRIMO GTA AMBIENTATO NEL FUTURO..!!
non uno sparatutto...mediocreUltima modifica di Sanny.91; 14-08-2012, 14:31.
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