E' inutile nascondersi dietro un dito: quando è stato annunciato Monkey Island 3 abbiamo avuto un sussulto. Ci siamo ritrovati inebetiti, in un turbinio di sentimenti diversi e contrastanti che ci hanno travolto, lasciandoci talmente spaesati da non comprendere la natura ultima dei nostri sentimenti. Dovevamo essere solamente felici perchè il sogno di tutti gli appassionati di videogiochi, avventurieri e non, si sarebbe avverato. Ma una fitta al cuore era l'effetto collaterale di quella notizia. Abbiamo riflettuto se fosse davvero il caso da parte della Lucasarts di andare a rispolverare quel nome per produrre un gioco cui sarebbe mancato al timone del comando nientemeno che l'ideatore stesso della saga, il grande Ron Gilbert. Soprattutto, eravamo incerti su cosa avremmo provato nel vestire nuovamente i panni, ormai dismessi, del nostro amico Guybrush. Abbiamo meticolosamente appuntato la data di uscita sull'agenda, consci che l'attesa sarebbe stata snervante ancorchè eccitante, quasi si trattasse di un primo appuntamento. Volevamo che le emozioni legate a questa serie potessero riempirci nuovamente dopo ben sei anni, durante i quali eravamo cresciuti, vivendo le nostre esperienze, dolci e amare, forgiandoci come provetti uomini; e ora ci veniva data la possibilità di mettere per un pò tutto alle spalle, ritagliando un momento solo per noi, e tornare ad un periodo unico ed irripetibile, quello della nostra adolescenza. Da questo punto di vista, prima del suo annuncio ufficiale, MI3 rappresentava una delle piccole speranze che ci facevano andare avanti, videoludicamente parlando, guardando con ottimismo alla vita, la chiave di volta per far scattare quel quid che avrebbe innescato una reazione a catena nella nostra mente, sempre più protesa alla vita reale, certi che un giorno sarebbe arrivato il caro Guybrush a riportarci indietro con la memoria, via dalle preoccupazioni, in quel mondo così lontano dal nostro ma paradossalmente tanto vicino a noi. MI3 rappresentava un pò il nostro Big Whoop. Un tesoro che a lungo avevamo bramato, riuscendo dopo mille peripezie, tra duelli a base di insulti e rocambolesche gare di sputi, quasi ad acciuffare, alla fine del secondo capitolo, salvo scoprire proprio in quel frangente che ciò per cui avevamo lottato, semplicemente non esisteva. O meglio, c'era ma lo avevamo sempre posseduto, ed era proprio lì, davanti ai nostri occhi, beffardo. Eravamo ricchi senza saperlo. Non ce ne eravamo accorti perchè era l'antitesi di come lo intendevamo. Non un forziere colmo di monete e fortune ma clamorosamente vuoto. Tuttavia, satollo di speranza. La speranza di chi si prepara ad affrontare la vita e lo fa con gli occhi innocenti di un bambino.
L'epilogo di MI2, per molti deludente, era un tributo all'immaginazione. E, ripensando a quanto vissuto, non poteva essere altrimenti. Perchè l'intento della saga, quello per cui è stata concepita, era ricreare il sogno di un ragazzino, mentre si diverte a fantasticare nel parco giochi Big Whoop. E tutto torna. Metafore che in ultimo collimano e inizialmente perplimono. MI non esiste per come l'abbiamo vissuto ma può avere parvenza reale se siamo noi a volerlo. La grandiosità di quella conclusione è il suo non porre fine a nulla se non al gioco; ma quello sarebbe terminato comunque, prima o poi. Invece con quella trovata, sappiamo che non è realmente così. Perchè a MI possiamo tornarci quando vogliamo. Probabilmente Guybrush è lo stesso Gilbert quando, imbattutosi a Disneyland nella giostra "Pirati dei Caraibi", ne è rimasto infatuato al punto da prenderla come musa per le sue avventure. E' così che deve essersi sentito, un bambino che vive la sua favola più bella, in cui è l'eroe buono che combatte i cattivi (che però non possono fargli realmente male, così come nel videogioco non si può morire) per trovare il suo tesoro. La sublimazione dei sogni di un ragazzino che immagina di essere un pirata, libero dai vincoli, magari leggeri, ma pur sempre catene che lo legano alla realtà, come fare i compiti o riordinare la stanzetta. Un filibustiere, forse perchè è davvero questo il suo sogno nascosto o più semplicemente perchè è il tema dell'attrazione nella quale si trova. Fosse stata un'altra, sarebbe stato lo stesso: un cavaliere che combatte i draghi per salvare la sua principessa, un astronauta contro gli alieni per difendere la terra... non ci sono limiti alla sua fantasia. Già, i due giochi che ci hanno fatto battere il cuore, pur senza paventare sentimentalismi o sdolcinatezze, erano frutto della mente di un moccioso. E' questo che ci scocciava, l'esserci fatti gabbare da un piccoletto. O forse, l'ammettere di essere noi stessi ancora immaturi e non voler crescere. Abbiamo dato ascolto a quello stesso fanciullo di pascoliana memoria che alberga in noi, e che ci ha portato a sognare gli stessi sogni di Guybrush, rifugiandoci nel suo universo. Ed ora, in un periodo in cui eravamo cresciuti e le nostre preoccupazioni erano ben altre da arrivare a rimpiangere quelle di una volta, potevamo ritornare in quel paese delle meraviglie. Ma con quale spirito avremmo affrontato questo viaggio a ritroso?
Ed è così che l'ultima sequenza di MI2 viene riletta. Scopriremo (soverchiando barbaramente quello che era il messaggio più profondo della saga, svilendolo) che Guybrush non è davvero un bambino ma lo era diventato a causa di una maledizione di LeChuck. Lo ritroveremo con la sua improvvisata scialuppa di salvataggio (un'automobilina dell'autoscontro con cui è fuggito dal luna park) nel bel mezzo di una battaglia navale tra il suo acerrimo rivale ed Elaine, l'amore di sempre. Verrà catturato dal pirata non morto e dopo un breve preambolo, riuscirà a fuggire, sottraendo all'odiato nemico un prezioso anello. Ma lo sventurato non sa che dietro tale monile si cela l'ennesimo maleficio e lo scoprirà solamente quando, nel donarlo all'amata, questa si tramuterà in una statua d'oro. E visto che le disgrazie non vengono mai sole, mentre Guybrush si recherà dalla signora VoooDoo per trovare un modo di romprere tale sortilegio, Elaine verrà trafugata. Non basterà solo distruggere l'incantesimo che la tiene prigioniera: prima bisognerà ritrovarla.
Ad inizio partita, l'idea di rivedere il viso di Guybrush è associabile a incontrare una vecchia ex mai del tutto dimenticata: in cuor proprio si spera sia diversa dall'immagine dei nostri ricordi, che i suoi tratti somatici non siano troppo simili a quelli che un tempo ci hanno fatto innamorare e basterebbe un minuscolo, insignificante particolare per far scattare tutta una serie di richiami emotivi, ritrovandoci a palpitare oggi come allora e ad aver paura dell'onda emozionale che potrebbe travolgerci. Da questo punto di vista, è quasi liberatorio che le nuove fattezze del protagonista non rammentino quelle che noi conoscevamo praticamente in niente, così l'approccio fa meno male. Ora Mr. Threepwood è uno spilungone alto e dinoccolato, ha il volto da pesce lesso, cammina come un debosciato ed estremizza in una sorta di macchietta, quel ragazzo belloccio, simile al "Ranocchio" di Polansky, genuinamente imbranato (badate bene, non deficiente come qui si vuol farlo passare). Ciò non toglie che graficamente MI3 sia una meraviglia, un vero quadro dalle tinte squisitamente color pastello, una tavolozza che inebria e, almeno nei fondali, mantiene un continuum coi precedenti. I personaggi enormi e caratterizzati peculiarmente sono uno spasso, e vederne le varie scenette in cui sono coinvolti sarà accostabile ad assistere ad un vero e proprio cartone animato: su tutti, l'oste Barbagialla e la sua manciata di denti, che fa molto "vecchietto del Far West", un clichè meravigliosamente colto. Il paragone col secondo capitolo di Discworld è il più adatto a rapportare quest'opera di cartoonizzazione estrema cui è stato sottoposto. Nessuno potrà negare la bontà del tutto, altresì qualcuno potrebbe non gradirne lo stile. Di certo, pur apprezzando la realizzazione dei nuovi personaggi, bhè... vedere Guynrush con quel nasone e LeChuck con delle labbra enormi mi interdice. No, non esiste: quei due semplicemente non sono loro.
Il sonoro è eccezionalmente evocativo nel riproporre le vecchie musiche con gusto, arrangiandole senza eccessivi stravolgimenti (d'altronde Michael Land è una garanzia, oltre che il depositario originale di tali composizioni), mentre le nuove, dal piglio deliziosamente sinfonico, pur senza prendersi mai troppo sul serio, completano alla perfezione un comparto tecnico davvero in grande spolvero. Il doppiaggio italiano è buono ma non eccezionale. Sfiziosa l'idea di usare per alcuni un'inflessione dialettale, ma udire un pirata che parla con cadenza napoletana esclamare "Aiò" fa uno strano effetto... se proprio si doveva, un "Uè" sarebbe stato più azzeccato. In generale, le voci, pur essendo adatte, non sempre convincono pienamente nell'interpretazione, comunque valida.
Ma l'immensa giocabilità della saga è rimasta inalterata? Assolutamente. Giocarci mette di buonumore e il solito sorrisino accompagnerà il nostro volto per tutta la durata: le gag si sprecano, anche se non tutte originali, i riferimenti al passato (non solo della saga ma a quello dell'intera ludoteca Lucas) sia nei dialoghi che in taluni sketches sono contestualizzati con sapienza, non mancano vari easter eggs spassosissimi e la semplificazione dell'interfaccia (mano/teschio/pappagallo rispettivamente ad indicare interagisci/esamina/parla) ha portato ad un innalzamento del ritmo di gioco, per contro ad una diminuzione del livello di sfida. La difficoltà infatti non è eccessiva. Scordiamoci degli enigmi diabolicamente da mal di testa del secondo (in modalità normale, ovvio): qui si è tornati alla relativa facilità del capostipite, ma la godibilità è indiscussa. Io stesso l'ho finito una manciata di volte, fatto raro per un'avventura e mi ci son sempre divertito anche perchè alcuni passaggi non li avevo metabolizzati del tutto, perdendo nuovamente del tempo nel superarli. Presumibilmente, dopo un pò dalla conclusione, si riaffronta volentieri per il ritmo gradevole. Praticamente, non rimane impresso abbastanza come i primi due.
MI3 soffre di quella che io ho ribattezato "sindrome di Turrican": nome altisonante, terzo episodio dopo due capisaldi, game designer originale assente, in ultima analisi, un risultato ottimo. Ma è il carico emozionale di cui si fa incosciamente o volutamente carico a bloccare il suo sprint. Perchè lotta contro un qualcosa di più grande del suo stesso essere videogioco. Ed è uno scontro improbo. Non è Davide contro Golia, è un granello di sabbia nel deserto, una goccia in un oceano. A dirla tutta non so nemmeno quante colpe siano davvero imputabili al titolo e non al fantasma che vi aleggia per tutta la durata. Mettendo da parte la discutibile scelta di rivangare un passato ormai defunto anche se latentamente ardente, la Lucas va pure elogiata perchè ha creato un titolo coerente, degno di indossare il nome che porta, devotamente rispettoso delle sue origini, umilmente debitore, raramente parodistico, genuinamente divertente. Forse questa recensione avrebbe dovuto tenere in considerazione solo ciò che MI3 è ma in fondo, nel riproporre il suo brand, era scontato cosa si prospettasse, e se di base si guadagnava una certa fetta di pubblico a prescindere dalla qualità intrinseca, per contro era logico aspettarsi certi paragoni. Non so quanto ci sia di speculativo in questa operazione, anche i primi due in fondo erano "prodotti" ma voglio illudermi che non fosse così, che il loro prezzo di copertina equivalesse a pagare un biglietto di sola andata verso Big Whoop, non una meschina retribuzione al lavoro del team di programmatori. Mentre MI3 alla fine è solo un videogame. Ma non è la sua natura ad essere mutata: un videogioco lo è sempre stato. Siamo noi ad essere cresciuti e a soppesarlo come una mera opera ludica, mentre gli altri due li avevamo giudicati con un metro diverso, impalpabile, emozionale. MI3 non può ambire ad entrare in quella scala che trascende i normali valori e deve accontentarsi, pur raggiungendo risultati di assoluto rilievo, di quella solita.
Questo terzo episodio è una sorta di amore maturo, nato sotto dei presupposti diversi, pianificato con concretezza, per avere stabilità e infondere sicurezza. I primi due erano infatuazioni giovanili, impacciate cotte in cui noi, totalmente inesperti, ci siamo tuffati a capofitto lasciandoci travolgere e il cui ricordo scalda e fa male. Perchè non potremo più vivere quelle sensazioni, cui avevamo messo un punto e inglobato nei nostri ricordi più cari, perchè siamo diversamente ricettivi, ormai, disillusi. Non che abbiamo smesso di sognare, è solo la parentesi MI ad essere un capitolo chiuso, e a mettere la parola fine è stato il suo stesso creatore, come era giusto fosse. Abbiamo bramato a lungo di poter riaprire lo scrigno dei ricordi per viverne di nuovi, ma quando siamo giunti li li dal farlo, una parte di noi non avrebbe voluto. Perchè MI aveva già espresso tutto quanto aveva da dire, adesso non si fa altro che ripetere forzatamente un concetto troppo importante per essere scimmiottato. Sarebbe ingiusto affermare di essere di fronte ad una brutta copia ma, per onestà intellettuale, oltre il buon palliativo non si va. C'era un tempo in cui ciò che toccava Ron Gilbert diventava oro o quasi ed è questo il punto cruciale: il team dietro questo capitolo, pur rimanendo in alcuni settori invariato rispetto ai prequel, è come un discreto atleta che sputa anima e corpo nel rincorrere un record che, al limite, potrebbe arrivare quasi a sfiorare sotto la guida di un coach adatto, ma che in ogni caso, non è umanamente alla sua portata.