Nel 1984, la IBM era sul punto di commercializzare il PCjr, un computer indirizzato a un pubblico non professionale senza riscuotere grande successo. Quel che a noi interessa è che il colosso dell'informatica e la software house Sierra si misero d'accordo per la creazione di un videogioco che riuscisse ad essere talmente importante da divenir capace di influire sulla distribuzione della macchina. La Sierra aveva già mietuto successi sul territorio americano sin dai tempi di Mystery House ed era divenuta sinonimo di qualità ma versava in un'economia difficoltosa a causa del fallimentare progetto Time Zone, un'avventura ambiziosa servita su sei dischetti, costosa sia gli sviluppatori ma anche per gli utenti non disponibili a pagare i 99 dollari del prezzo di acquisto. Il flop obbligò la casa americana a guardare con interesse alla proposta della IBM che le consentiva di produrre qualcosa di grandioso approfittando degli opportuni incentivi economici. Roberta Williams, la sceneggiatrice dietro tutte le avventure Sierra dell'epoca,ottenne risorse sufficienti per ingaggiare sei coder a tempo pieno per uno sviluppo totale lungo un anno e mezzo e spese per circa 700 mila dollari. Ma il PCjr fu un fallimento e nell'anno di esclusiva con l'IBM la gratificazione fu minima. Soltanto dodici mesi dopo, con conversioni per una moltitudine di sistemi, si cominciò a parlare di successo, capolavoro, rivoluzione. Nel 1990, la Sierra decise di programmare una nuova interfaccia per le avventure grafiche, scegliendo di proporre King's Quest sotto questa nuova veste. Già, perchè la prima uscita non poteva che soffrire gli stringenti limiti tecnici dei Pc di quei tempi: la grafica era a 16 colori ad una modesta risoluzione di 160x200, il sonoro era minimale con solo qualche bip dello speaker e il controllo via mouse non era mai stato nemmeno previsto. Si basava su un parser di proprietà della Sierra chiamato AGI, tramite il quale impartire i comandi per le varie azioni da eseguire sullo schermo. Nonostante ciò, è impossibile non considerarlo un titolo rivoluzionario: tecnicamente eravamo comunque di fronte a un bel balzo in avanti rispetto alla monocromia delle avventure per Apple II, ma ciò che scombussolò il panorama videoludico fu la novella introduzione della tridimensionalità. Ovviamente, non stiamo parlando di nulla di poligonale e ci riferiamo sempre ad un ambiente strettamente bidimensionale tuttavia caratterizzato da elementi posizionati a diverse profondità con alberi, cespugli, muri che restituiscono nuove possibilità ludiche proprio grazie alla dignità spaziale che improvvisamente trovano. E questo è stato il vessillo della rivoluzione "made in Sierra" delle avventure grafiche che, anche se non per la prima volta, presentavano a video anche l'imperante visuale in terza persona con le dovute animazioni del protagonista e dello scenario. Nel 1990, però, l'adventure tipo si era oramai delineato grazie alla maestosità dello SCUMM della Lucasfilm Games, un'interfaccia in grado di supportare un pieno controllo via mouse capace di conquistare la grande massa del pubblico. La concorrenza non poteva fare altro che inseguire e copiare e le avventure testuali, ma anche quelle grafiche con parser vari, invecchiarono di botto e il rinnovamento generale divenne per tutti un passo obbligato. La Sierra fu la software house che accusò peggio il colpo, ritrovandosi in un mercato con un nuovo standard di gameplay impostosi con una velocità bruciante, tale da portarla a programmare in fretta e furia una nuova base per le sue avventure: il Sierra's Creative Interpreter, più comunemente SCI. A dire il vero debuttò nel 1988, ma si trattava di uno scripting ancora immaturo che avrebbe seguito un notevole destino evolutivo, ma questo remake di King's Quest I era legato ancora ad una versione piuttosto primordiale dello stesso: i miglioramenti tecnici riguardavano la risoluzione, innalzata a 320x200 ma sempre a 16 colori, e un'implementazione più generosa del sonoro. La giocabilità traeva giovamento dal supporto del mouse che tornava utile per gli spostamenti e per l'analisi dello scenario e delle sue componenti anche se non riusciva ancora a separarsi completamente da comandi testuali discreti ma presenti. La grafica vantava ugualmente un salto di qualità: i fondali appena abbozzati si arricchivano di dettagli, con ogni schermata ben distinguibile dalle altre, e gli sprite miglioravano drasticamente le proprie dimensioni ed animazioni. Il gioco non subiva, invece, nessuna modifica sostanziale dal punto di vista degli enigmi, a parte qualche piccola correzione per quelli più ardui. Questo remake fu quasi sbranato dalla critica che lo accusava di aver rovinato lo spirito originale apportando un restyling più distruttivo che costruttivo: mi permetto di dissentire, forse perchè quella attuale è un'epoca nella quale il remake è maturo, ben visto e generalmente accettato dal pubblico, soprattutto perchè King's Quest presentava uno schema di gioco davvero vetusto anche per il 1990 e i suoi giocatori viziati da Maniac Mansion. Al giorno d'oggi la versione originale ci risulta talmente spigolosa da compromettere la nostra voglia di riscoprirla, svantaggiata da un'interfaccia che si è persa nel tempo da ormai troppi anni. Ma la riedizione com'è? Bisogna tenere presente che il King's Quest originale non affiancava al suo spirito rivoluzionario un altrettanto apprezzabile impianto ludico, obiettivo probabilmente irraggiungibile per un videogioco che si protendeva per la prima volta in una direzione orientata verso la grafica sopra ogni cosa. Sebbene sia stata sempre il vanto di Roberta Williams, la sceneggiatura qui è involuta, essenziale, presentando un background curato nella manualistica e nella presentazione ma che si perde completamente durante la partita vera e propria. Il nostro avatar, sir Graham, passa per caso per il regno di Daventry preceduto dalla sua fama di eroe e viene contattato dal re locale, un uomo distrutto e indebolito dalla vecchiaia e dai dolori della vita. Per vari motivi ha dovuto cedere alcuni dei suoi più preziosi tesori per salvare la vita di sua moglie scambiandoli con una radice miracolosa, salvo poi scoprire di essere stato turlupinato. In assenza di un erede, il re promette a sir Graham di nominarlo suo successore se riuscirà a portare a palazzo i cimeli perduti.
L’avventura inizia subito dopo l’uscita dal castello e sarà composta da una serie di schermate nelle quali incamminandosi verso le quattro direzioni cardinali si accederà ad ulteriori videate ognuna con i propri enigmi ed oggetti da raccogliere. Analizzando una avventura Sierra bisogna sempre tenere a mente la peculiare filosofia di fondo che si enuclea in una caratteristica fondamentale: qui si può morire. Anzi, è un evento molto frequente. La nostra vulnerabilità ci mette di fronte a situazioni che richiederanno il tempestivo scongiuramento di pericoli, che siano nemici assassini sui nostri passi oppure semplicemente un percorso con delle buche. Per il giocatore moderno, l’approccio richiesto per affrontare correttamente King’s Quest è terribilmente lontano da quello moderno nonostante il lavoro di remaking: i dialoghi sono quasi del tutto assenti e la nostra attenzione sarà costantemente focalizzata all’orientamento all’interno del bosco che costituisce gran parte dello scenario, facendo attenzione a non perdersi e provando a raccogliere qualsiasi cosa facendo i conti con un’interfaccia che con molte difficoltà riusciremo a digerire. Gli enigmi del gioco sono talvolta molto duri: la durata dell’avventura è limitata, ma ogni passo richiederà elucubrazioni molto complesse, con passaggi volutamente poco intuitivi e situazioni dove potremmo non renderci immediatamente conto di un errore commesso salvo poi morire per non avere eseguito le azioni corrette in un punto indefinito del gioco. Alcuni momenti sono incredibilmente ostici, tanto da aver costretto alcuni utenti a tempestare di lettere di aiuto la Williams per anni. Molti passaggi sono orientati allo sfruttamento della nuova tridimensionalità dello scenario, come quando bisogna nascondersi dietro gli alberi per non farsi vedere dai mostri, ma troppe volte si riducono a meri stratagemmi per ostacolarci, facendoci cadere dalle scale, dalle arrampicate, dentro buchi nei pavimenti… All’epoca si trattava di difetti totalmente giustificabili ma, da retrogamers quali siamo, ci interessa anche un gameplay ben invecchiato, apprezzabile anche nel presente. Non è questo il caso. Riprendere in mano l’originale è deleterio per il nostro godimento per quanto sacrosanto in un percorso alla riscoperta della storia dei videogiochi. Il remake si impegna per trasformarsi in qualcosa di user-friendly risultando il miglior portale ufficiale per entrare in contatto con questa saga, ma l’interfaccia ibrida testo-mouse non fa abbastanza e, se pure dovesse accontentare qualcuno, rimarrebbe il problema degli enigmi e della minima interazione con altri personaggi del gioco.
Il retrogiocatore può orientarsi in due modi: se le sue intenzioni sono quelle di studiare l’evoluzione delle avventure grafiche, vale la pena procurarsi l’originale King’s Quest, quello con la sola interfaccia testuale, ed esplorarlo a fondo; se, invece, ci interessa più semplicemente scoprire l’evoluzione della serie da un punto di vista della sceneggiatura saremo meglio accolti da questa interfaccia SCI, ma non aspettatevi una trama ricca ed appassionante. Storico e di cruciale interesse evolutivo, potrebbe non necessariamente divertire.
Che giramento di biglie che mi faceva venire, morivo almeno 100 volte
al minuto
Voto personale 5