El topo (in spagnolo “la talpa”) è un film cult del 1970, scritto, diretto e interpretato dal cileno Alejandro Jodorowsky. Si tratta di western metafisico, unico nel suo genere, estremamente violento, ricco di metafore e riferimenti religiosi, cristiani e non. Tributo al cinema del grande Sergio Leone, El topo narra di un pistolero che, spinto da una donna salvata da un gruppo di banditi, va alla ricerca dei quattro maestri del revolver, con lo scopo di sconfiggerli per diventare il bounty killer più forte della regione.
El topo è un film complesso, su cui ci sarebbe molto da dire. Per adesso però ci fermiamo qui.
Travis Touchdown è un otaku, termine che letteralmente significa “chiuso in casa” e che indica un soggetto che coltiva ossessivamente una passione. In Giappone ha un'accezione negativa, mentre in occidente viene spesso utilizzato per indicare i disegnatori di fumetti giapponesi. Travis è appassionato di wrestling, manga, anime e film vietati ai minori che regolarmente si scorda di riconsegnare al suo videonoleggio di fiducia, il Beef head video. In una delle tante sere passate a ubriacarsi al bar Death-match, Travis incontra Silvia Christel, dipendente della United Assassins Association, la quale lo ingaggia per uccidere Helter Skelter, il numero 11 della classifica dei migliori assassini degli Stati Uniti. Eliminato il Vagabondo, Travis entra ufficialmente in graduatoria. A questo punto non gli resta che combattere. Armato della sua beam katana vinta all'asta su internet, Travis dovrà lottare fino ad arrivare in cima alla classifica o rassegnarsi a soccombere. La ricompensa? Una notte di fuoco con l'affascinante Silvia.
La similitudine tra e due vicende è lampante: sia El topo che Travis, per amore di una donna, devono dimostrare di essere i migliori, come metafora della costante ricerca di se. Nonostante Travis possa sembrare un personaggio superficiale, in realtà non è così. Come El topo, l'otaku confida così ciecamente nelle sue capacità innate da non avere idea della realtà profonda che costituisce il suo animo e che andrà scoprendo negli scontri coi suoi avversari. Nel film, il pistolero sconfigge i maestri del deserto con l'inganno ma, travolto dal senso di colpa, viene destinato ad espiare i suoi peccati in un'opera di carità. Allo stesso modo Travis, capirà ben presto di non essere solo un killer senza scrupoli e che dietro alla vicenda c'è molto più di una lotta per un posto in classifica.
Un altro aspetto che accomuna il capolavoro cinematografico con questa perla del videoludo è la particolarità dei personaggi. Siamo ben lontani dai classici buoni e cattivi che i media ci propinano, dalle idee banali e superficiali di bene e male che vengono vendute come gli hamburger del McDonald's. Sia in El topo che in No more heroes questa distinzione non esiste. Il protagonista è un antieroe, se così si può definire, un personaggio privo di qualsiasi nobiltà. È un fallito che cerca disperatamente di dimostrare a se stesso di valere qualcosa. Allo stesso modo gli assassini non possono essere considerati malvagi. Ognuno di essi è caratterizzato in maniera eccelsa, fumettistica quanto basta per ammaliare il giocatore, ma non per questo privi di profondi risvolti psicologici. Questo character design potrebbe richiamare alla mente di alcuni, caratteri di tarantiniana memoria, ma Goichi non cita volutamente il Quentin del grande schermo, non solo perché quest'ultimo non gode di certo della stima di Jodorowsky, ma perché, alla base di No more heroes vi è una scelta stilistica radicalmente diversa. I dieci sfidanti di Travis non si limitano ad essere semplicemente comparse dall'aspetto accattivante (tipiche appunto del cinema di Tarantino), ma al contrario hanno tutti un insegnamento da trasmettere tramite un'intessitura dialettica estremamente raffinata. A questo proposito, sembra quasi denigratoria nei confronti di quel cinema tanto criticato dal regista cileno, la scena finale del gioco.
Abbandonando a questo punto le digressioni filosofiche, diamo uno sguardo rapido al comparto tecnico del gioco. La grafica è realizzata in uno splendido cell-shading, tutt'altro che banale e, seppur parvo di particolari, di sicuro pregio stilistico. I retrogamer sbaveranno di fronte alla grafica richiamante a più riprese i cari vecchi pixel e le incursioni di alcune schermate d'altri tempi. Il tutto perfettamente integrato in un concept artistico tra i migliori mai realizzati nella storia del videogame.
Tutto questo sfocia in un gameplay geniale nella sua semplicità. L'implementazione del wiimote avviene in maniera saggia ed equilibrata, garantendo un divertimento assoluto e privo di qualsiasi frustrazione. I colpi con la katana, eseguiti premendo A, e quelli col corpo, premendo B, vengono intervallati da schermate che, interrompendo per un attimo il gioco, ci mostrano come muovere nunchuk e wiimote per poter eseguire attacchi finali o prese di wrestling. Ne risulta una giocabilità che non stufa nel tempo, immediata da imparare ma che, al contempo, lascia spazio all'affinamento durante le venti ore scarse di durata dell'avventura principale. Le ulteriori sfide che si presentano dopo aver portato a termine l'impresa o alcune missioni secondarie particolarmente impegnative, assicurano un prolungamento della longevità ad almeno trenta ore di gioco. Insomma divertimento ai massimi livelli.
No more heroes entra così di diritto tra i capolavori del videoludo, non perché non abbia difetti, ma semplicemente perché di tali difetti non c'è alcun bisogno di parlare. Persino la censura, al solito incomprensibile ma almeno ben realizzata, passa in secondo piano di fronte a un'opera tanto profonda e tanto coinvolgente. Un gioco che nessuno dovrebbe lasciarsi scappare.
Per concludere la trattazione, aggiungiamo una piccola nota sul parallelismo tra i samurai e i bounty killer, che in No more heroes sembra ricorrere. È infatti diffusa l'idea che i pistoleri e i samurai siano essenzialmente la stessa figura collocata in due mondi differenti. La katana infatti è molto più simile concettualmente a un revolver che a una qualsiasi spada occidentale. La sua lama estremamente affilata non permetteva scontri in cui ci fosse spazio per la scherma. Al contrario, era il più veloce a estrarre e tagliare che solitamente vinceva, esattamente come in un duello nel far west. Di questo se ne accorse Sergio Leone che, con l'uscita del suo Per un pugno di dollari, fece andare su tutte le furie un altro grande regista, Akira Kurosawa. Questi infatti fece causa al regista italiano per aver palesemente plagiato La sfida del samurai, la cui trama è praticamente identica. L'unica differenza tra i due film consiste proprio nella sostituzione dei samurai con dei bounty killer. Kurosawa guadagnò così una buona fetta degli incassi del celebre western.
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