Proprio mentre i movimenti artistici erano fortemente concentrati attorno alla leggenda del leader indigeno nasce Turok, un fumetto edito dalla Western Publishing che verteva sulle coraggiose avventure di due nativi americani nell'epoca antecedente alla scoperta dell'America. Il carisma della pubblicazione fu subito avvertito dalla platea e vari editori hanno consentito ad essa di sopravvivere sino ai giorni nostri, ma le varie case protagoniste della staffetta dei diritti hanno progressivamente spostato l'era degli eventi fino al diciottesimo secolo, moltiplicandone gli spunti fantasy e trapiantando Turok in una terra in equilibrio fra diversi mondi, nella quale il tempo e lo spazio si piegano a regole inconsuete imposte da una nemesi semidivina a cui l'eroe di turno si contrappone senza sosta.
I Turok sono membri della famiglia dei Fireseed che si succedono, generazione dopo generazione, nella difesa della Terra Perduta. In occasione della prima incursione del fumetto nel mondo dei videogiochi, le barriere spazio-temporali sono minacciate dal Campaigner, il quale intende mettere insieme i frammenti del Chronoscepter in modo da devastarle del tutto e controllare il flusso dell'universo.
La narrazione in Dinosaur Hunter è a dir poco secondaria. Fatta eccezione per l'introduzione al gioco offerta dal manuale, dove viene raccontato in poche righe quanto vi ho poco fa esposto, ci verrà comunicato ben poco. La presentazione del gioco non va oltre il pur coreografico elenco di publisher, team e titolo del gioco e le scritte durante l'intera avventura mirano all'essenzialità pura, limitandosi a comunicarci la tipologia dell'oggetto raccolto oppure il titolo del livello che ci apprestiamo ad affrontare. Scordatevi qualsiasi interazione con personaggi non giocanti, qualsiasi dialogo, qualsiasi intermezzo che non sia strettamente funzionale al gameplay.
Un motivo ci sarà
Sarebbe facile rispondere: “le cartucce!”. Le priorità di un videogioco nel 1997 su una console di ultimissima generazione sono altre, raccontare una bella storia è stato possibile sin dall'alba dei tempi, inondare lo schermo di effetti speciali decisamente no. Il Nintendo 64, poi, era un mondo tutto particolare capace di contraddizioni incredibili, ma di sicuro non gli mancavano i numeri per stupire. Obiettivo numero uno imposto dalla Acclaim alla Iguana: creare il first person shooter più impressionante mai visto per console. Prospettive ambiziose, ma castrate dalla poca memoria a disposizione. Dove tagliare? Inutile imporre un nuovo standard tecnologico se alle spalle non ci sono delle basi in grado di intrattenere degnamente i giocatori. Allora via il superfluo, in primis proprio lo storytelling. Sacrificio che i tempi giudicheranno saggio per aggirare un limite, ma come venire a patti con la poco generosa potenza poligonale della macchina?
Spazio alla vera protagonista
La nebbia! In Turok c'è nebbia, tanta, tantissima nebbia. E' ovunque: all'aperto, sopra e sotto le nuvole, nelle caverne, negli edifici, in mezzo al fuoco, addirittura sott'acqua. Perchè? Perchè a pochi mesi dal debutto della console le virtù del Nintendo 64 si celavano dietro un fitto alone di mistero figlio dell'approssimazione di mezzi ed informazioni che Nintendo aveva fornito agli sviluppatori. Tirare fuori dai circuiti un motore fluido è stato a lungo una chimera e l'escamotage più ovvio per ridurre la conta dei poligoni è sembrato alla Iguana quello di coprire l'orizzonte.
Non è un dramma. Turok è diventato uno dei simboli del Nintendo 64 proprio grazie alla sua nebbia. Arduo stabilire se i designer riuscissero a realizzare la personalità che la sua implementazione avrebbe conferito al prodotto, ma l'impossibilità di vedere oltre quelle poche decine di metri a noi concessi imprime un marchio inconfondibile all'atmosfera. La nebbia di Turok la senti nel naso, avverti il suo scorrere attraverso le sinusoidi, quasi ti pizzica gli occhi mentre brancoli tra caverne e distese d'erba alla ricerca di un nuovo percorso da battere. Ti acceca, ti confonde, ti ossessiona.
E ti irrita. Per colpa sua, molte strade si assomigliano, vi farà perdere l'orientamento, vi costringerà a giocare con la mappa fissa sullo schermo. E' la protagonista, nel bene e nel male.
L'importanza della forma
Tutto il resto del reparto grafico è da standing ovation. Prima di ogni cosa, è bene rendere onore al solidissimo framerate che non conosce quasi nessuna incertezza. Il meglio, tuttavia, nasce dal competente sfruttamento della gamma di effetti particellari messi a disposizione dalla programmazione del processore RCP: un trionfo di acqua, nuvole, elettricità, esplosioni e i livelli bonus si trasformano in tech demo nei quali i coder esprimono tutta la loro perizia. Anche sul fronte delle animazioni è stato fatto quanto di meglio possibile, attingendo a piene mani dal potenziale del motion capturing ed ottenendo movenze di una credibilità insolita per il 1997. I modelli poligonali dei nemici sono ben realizzati, con qualche paradossale perplessità proprio per quelli dei dinosauri, più avari di poligoni e privi delle certosine animazioni delle controparti umanoidi. Le tessiture degli scenari sono generalmente buone, sebbene la direzione artistica si sia orientata principalmente verso una varietà cromatica dell'illuminazione, ma le complicazioni derivanti dalla modestissima texture cache della console non si avvertono mai, anzi, non mancheranno dettagli splendidi come le molteplici trasparenze del bellissimo cielo della Terra Perduta.
Il quadro cambia fastidiosamente non appena ci rivolgiamo al reparto audio, dove appare chiaro che si è soprattutto pensato a limitare i danni: la Iguana, infatti, ha dovuto fare i conti con le dimensioni della cartuccia da utilizzare (otto miseri megabyte) che nelle fasi finali dello sviluppo hanno provocato una semplificazione ed una riduzione di qualità dell'intera colonna sonora, la quale, effettivamente, è a malapena avvertibile. Nessuna melodia immortale, nessuna concessione alla creatività dei compositori: le musiche di Turok affiorano a tratti come accompagnamento dei frangenti più concitati, ritmati suoni tribali che lasciano in fretta campo al carisma delle distese nebbiose, negandosi perfino l'intenzione di amplificare la magnificenza della grafica. Più gratificanti gli effetti sonori, con i grugniti del cacciatore di dinosauri durante le arrampicate o in seguito alle ferite, senza dimenticare il memorabile “I am Turok” in occasione dei 1-up!
Il sangue che non t'aspetti
Se come me vi siete appassionati ai FPS con Doom o Rise of the Triad, le uccisioni violente non saranno una novità sconvolgente. Tuttavia, il primo omicidio in Turok lascia il segno: una coltellata all'altezza della carotide, un fiotto di sangue schizza per tre metri dal collo dello sventurato che prima barcolla e poi s'accascia. Abbiamo già visto altrove persone impalate, esplosioni umane e persino bulbi oculari che fuggono dalle orbite, ma stavolta è diverso, stavolta sa di vero. Potere del motion capturing, quintali di carburante per alimentare il focolaio della polemica. Ed è così che Turok è entrato di prepotenza nel mirino dei vari enti a tutela dei giovani, dell'etica e dell'educazione. Una pioggia di contestazioni che raggiunse il picco in Germania, dove alla Acclaim venne imposto di eliminare ogni scena di violenza contro umani, pena l'impossibilità di vendere Turok nel territorio. Il risultato fu una goffa sostituzione dei guerrieri con dei robot, un ripiegamento credibile ai fini della sceneggiatura (Turok si aggira per varie epoche, i robot potevano presumibilmente giungere da qualche era futura) ma alquanto inefficaci sul piano dell'immersività.
La violenza di Turok era anche qualcos'altro: in una console war dove la Playstation banchettava coi pugni di Tekken, i seni di Lara e il sangue degli zombie di Resident Evil, c'era bisogno di un segnale da parte del Nintendo 64 per guadagnarsi un'immagine adulta che era stata messa un po' da parte con le azioni fin troppo protezionistiche della sua casa madre ai tempi del Super Famicom, con la puntuale censura operata sulle produzioni un po' sopra le righe. Che il cambio di direzione abbia fatto rumore, è sicuro.
Un gameplay collaterale
E' scontato che a nessuno verrebbe in mente di produrre un brutto gioco, lo è molto meno credere che la giocabilità venga sempre prima di tutto. Come dicevamo, per un videogioco, le ragioni di esistere possono essere molteplici e, soprattutto nelle epoche di maggiore sperimentazione, non era blasfemo anteporre il prodigio tecnologico all'evoluzione del gameplay, in special modo se la lussuria cosmetica si imponeva quale input per la prosecuzione nell'avventura, come testimoniato ad esempio da Dragon's Lair o Shadow of the Beast. Turok è nato troppo tardi per concedersi una possibilità del genere, ma le scelte tecniche che hanno spinto verso l'implementazione della densissima nebbia per sostenere la fluidità del gioco hanno influito sulla giocabilità. Turok è claustrofobico, che siate all'aperto o all'interno di qualcosa, vi troverete sempre alla prese con il disorientamento provocato della ridottissima distanza visiva che vi farà sembrare ogni percorso uguale a quello precedente, sensazione ancora più amplificata nelle sezioni al chiuso come quella delle catacombe. Non aiuta, in questo senso, la scelta dei designer di puntare a poche ma vastissime mappe piuttosto che a livelli più brevi: il raggiungimento della fine dello stage comporta prolungate sessioni di gioco che potrebbero apparirvi ancora più lunghe qualora si rivelasse necessario del backtracking. In Turok, infatti, per avere buone chance di vittoria contro il nemico finale vi toccherà mettere assieme gli otto pezzi della super-arma Chronoscepter, ognuno nascosto nei posti più reconditi delle mappe. Non solo: per avanzare di livello in livello saranno necessarie delle apposite chiavi dislocate nelle aree di gioco senza un ordine preciso e spesso anch'esse nascoste per bene, anche in vere e proprie stanze segrete. E' in questi momenti che bisogna fare i conti col rapido respawn dei nemici, i quali si rigenereranno ad un ritmo martellante mentre voi sarete in costante penuria di proiettili e stanchi per la ricerca. Dato che gli item non si ripresentano, una volta raccolti, sul campo di battaglia ma vengono elargiti solo saltuariamente dai nemici, le nostre tattiche si risolveranno in continue e veloci fughe da un angolo all'altro del livello, con la mappa dell'area perennemente in sovraimpressione con la speranza di capirci qualcosa.
Poco appagante l'intelligenza artificiale dei nemici, i quali si limiteranno a corrervi dietro sia che si tratti di dinosauri che di sciamani, con la sola differenza che alcuni potranno colpirvi da lontano. Non aspettatevi tattiche evasive o di gruppo, ognuno si comporta come un cane sguinzagliato verso la preda.
La difficoltà della sfida è tarata verso l'alto e vi costerà molta fatica superare le fasi più avanzate. Una delle principali cause di morte è l'errata valutazione dei salti: il buon Turok vanta un balzo davvero impressionante ed i ragazzi della Iguana non si sono fatti mancare lunghi percorsi da affrontare zompettando. Comprensibile ritenere che abbiano esagerato visto che ci sarà concesso un margine di errore minimo anche quando saremo costretti a saltellare su venti minuscoli trespoli in successione, mentre un fiume di lava letale scorrerà ad un metro sotto di noi. La ricerca ritorna ad essere il tema dominante in occasione dei salvataggi, visto che l'unico modo di conservare i progressi sarà quello di raggiungere i rari altari che fungono da savepoint, spesso localizzati in zone scomode o preceduti da pericolosi combattimenti. L'elevata sfida è incrementata dalla relativa penuria di bonus di energia e dal lungo iter per acquisire vite extra: sì, a differenza dei FPS moderni, Turok presenta ancora le vite e ne riceveremo una nuova solo dopo avere raccolto cento triangolini dorati, disseminati di qua e di là sulle mappe. Peccato che le zone più ricche siano precedute da una serie ignobile di salti millimetrici che vi costeranno carissimi se non calcolati alla perfezione.
Nonostante abbia rappresentato a tutti gli effetti un passo importante per il genere d'appartenenza sulle console e per l'evoluzione del Nintendo 64, molto di quanto seminato da Turok non ha avuto seguito nel videogaming moderno, lasciando a Goldeneye questo privilegio. La componente platform è stata generalmente abbandonata ed il salto, quando disponibile, oggi non è più il protagonista di intere mappe. Si tende, inoltre, a porgere piuttosto comodamente gli item imprescindibili per il completamento del titolo, riservando le aree segrete agli obiettivi secondari che interesseranno esclusivamente chi intenderà spulciare a fondo il programma. Sebbene possa apparire come un depauperamento della sfida, si tratta di scelte di design che mantengono più tonico il titolo sul lungo termine. Tonicità che in Turok soffre la completa assenza di varietà, visto che ogni livello è perfettamente sovrapponibile agli altri in quanto ad obiettivi e le uniche nuove introduzioni saranno relative a nuovi nemici e textures, una direzione antipodale rispetto a quella lungo la quale la categoria si è evoluta.
La rivoluzione dei controlli
Se Playstation e Saturn sono state poco fertili in materia di FPS era anche colpa del controller: la semplice croce direzionale, infatti, non valeva quanto mouse e tastiera, ma il pad del Nintendo 64 presentava una levetta analogica che permetteva ai giocatori di effettuare movimenti più morbidi e precisi, senza dimenticare il pulsante sul retro del controller che mimava addirittura un grilletto. Non ancora perfetto, ma sicuramente un passo verso la direzione giusta. Turok prevede il movimento dello sguardo tramite tale levetta e l'avanzamento del personaggio, strafe compreso, tramite l'interazione con le frecce del D-Pad sulla destra, mentre il fuoco è adibito al grilletto posteriore ed il salto al dorsale destro. Un mix efficace dopo il necessario periodo d'apprendimento, sebbene concorrenti successivi abbiano proposto soluzioni differenti e talvolta più apprezzate. Il maggiore difetto imputabile ai controlli non è correlato alla dislocazione dei pulsanti quanto piuttosto alla gestione del puntamento da parte del software: per sparare ad un nemico situato alla nostra altezza sarà ovviamente semplice ed il gioco prevede una sorta di mira automatica verso gli avversari posti leggermente più in alto o più in basso del nostro avatar. Purtroppo, per quelli almeno ad un paio di metri dal nostro piano dovremo ricorrere al puntamento manuale che si rivelerà rigidissimo e nient'affatto assistito. Inoltre, lo sguardo di Turok è autocentrante, quindi ritornerà in posizione di default non appena abbandoneremo la levetta e azzeccare i colpi nel caos dell'arena di gioco si rivelerà una sfida notevole.
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