Partendo da simili premesse è inutile negare che le aspettative sul titolo in questione fossero assai elevate. Purtroppo, come vedremo nel dettaglio in seguito, le grandi speranze riposte nel titolo Mistwalker sono state per la maggior parte disattese, impedendo così a quest’ultimo di ottenere quel successo sul quale la Microsoft aveva ovviamente riposto gran parte delle proprie ambizioni.
Essendo stato concepito come una vera e propria testa di ponte per il ricco mercato giapponese, Blue Dragon sembra rinunciare quasi a priori a qualsiasi forma di sperimentazione, cercando di far breccia nel cuore del giocatore con la pedissequa riproposizione di tutti quei clichè propri del genere d’appartenenza. Ritroveremo perciò i classici combattimenti a turni, la tipica world map ricca di dungeon e città da esplorare, nonché quell’ambientazione fantasy/adolescenziale che con ogni probabilità rappresenta il vero marchio di fabbrica dell’universo jrpg. Le uniche due eccezioni a tale schema sono rappresentate dall’inserimento delle “ombre”, ossia una sorta di emanazione spirituale in grado di combattere per conto dei nostri personaggi (ma la cui funzione rimarrà prettamente coreografica) e nella possibilità che avremo di sfidare più gruppi di nemici contemporaneamente. Operazione, quest’ultima, che ci consentirà sia di limitare i caricamenti con le conseguenti interruzioni di gioco che di ottenere un maggior numero di punti esperienza. Interessante risulta altresì il sistema di acquisizione delle abilità, che ci permetterà di attribuire e cambiare a piacimento la specializzazione di ciascuno dei nostri personaggi, facendogli così ottenere differenti poteri da sfruttare in combinazione fra loro. Purtroppo l’elevato livello di personalizzazione che questo sistema sembra garantire viene sostanzialmente nullificato dalla rapidità con cui riusciremo ad entrare in possesso delle suddette abilità, cosa che verso la fine del gioco tenderà a restituirci cinque personaggi “tuttofare” praticamente intercambiabili fra loro. Inoltre, se tale impostazione finisce col ricordare vagamente quel Dragon Quest VIII uscito per PS2 qualche anno prima, ben più spudorato appare il plagio del settimo episodio della serie Final Fantasy, dal quale vengono letteralmente riciclate sia le evocazioni che le “limit break”, fondendole assieme in un sistema furbescamente ribattezzato “corporeo”.
Come ogni estimatore del genere ben sa, il vero fulcro di ogni gioco di ruolo risiede nella storia; aspetto che, se ben sviluppato, può far passare in secondo piano persino delle carenze strutturali abbastanza gravi. Anche sotto questo punto di vista, però, Blue Dragon finisce col fallire miseramente, proponendo una trama infantile e del tutto priva di spunti di riflessione, la quale cerca inutilmente di tenere desto l’interesse del giocatore introducendo continui colpi di scena tanto forzati quanto prevedibili.
A chiudere il cerchio su questa assai poco entusiasmante panoramica ci pensano, infine, un livello di difficoltà decisamente calibrato verso il basso ed un comparto tecnico assolutamente al di sotto delle capacità dell’Xbox 360. Se il primo di questi due difetti preclude il titolo a quella fascia di appassionati ed “hardcore gamer” alla quale sembrava inizialmente indirizzato, il secondo finisce col tagliare fuori anche quei giocatori maggiormente attratti dall’impatto estetico generalmente offerto da simili produzioni. Difetto, quest’ultimo, che trova solamente una parziale giustificazione nella relativa inesperienza del team, alle prese per la prima volta con una console all’epoca relativamente giovane; in quanto, al di là delle tessiture decisamente mediocri e di una modellazione poligonale appena sufficiente, i maggiori difetti del titolo possono essere riscontrati proprio sotto il profilo artistico, incapace, proprio come il resto del gioco, di proporre alcunché di veramente originale od affascinante.
Alla luce di quanto sopra, il miglior modo per descrivere Blue Dragon in una sola parola è sicuramente “superfluo”. Il titolo Mistwalker, infatti, sebbene si lasci portare a termine abbastanza volentieri, proponendo anche alcuni sprazzi di relativo divertimento, finisce col pagare pesantemente il suo voler essere eccessivamente “ruffiano”. La totale mancanza di originalità, un livello di difficoltà a tratti irrisorio ed un comparto tecnico cronicamente privo d’ispirazione ci consegnano un titolo che fa del “già visto” e del “già fatto” il proprio tratto distintivo.
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