Vale la pena premettere che le differenze tra i giochi Muse e quelli id sono sostanziali: first person shooter i secondi e giochi di azione i primi. Ciò che li accomuna è l'incontestabile potenziale rivoluzionario.
Castle Wolfenstein, di prim'acchito, potrebbe apparire come un programma piuttosto ordinario: grafica bidimensionale, ambienti nella norma, pochi sprites sullo schermo. A differenza della versione per Apple II che poteva perlomeno vantarsi di essere il gioco d'azione più valido dell'epoca per la macchina, sul Commodore 64 questo gioco doveva fare i conti con un pubblico più maturo, più viziato e con una concorrenza di certo agguerrita. Riuscendosi ad imporre.
Castle Wolfenstein è una tappa fondamentale della storia videoludica: mentre nelle sale giochi impazzavano i prodotti esigenti di un veloce coordinamento occhio-mano e dove la ristretta durata delle partite poneva decisamente l'enfasi sulla frenesia, la proposta della Muse trasponeva l'interazione videoludica su un binario quantomai metodico. Castle Wolfenstein è il primo stealth-action, una tipologia di giochi in controtendenza con la moda di quegli anni ma, soprattutto, un genere assai complesso da accordare con l'hardware dell'epoca a causa dell'elaborata intelligenza artificiale necessaria. Non è un caso che la proliferazione del genere sia avvenuta nella seconda metà degli anni Novanta e che, invece, nell'ambito delle due dimensioni si fatichino a ricordare anche solo un paio di nomi validi.
La nostra avventura parte dall'interno di un castello nazista, col nostro eroe intenzionato a fuggirvi non prima di aver rubato importantissimi piani di guerra. Ma siamo con la divisa da prigionieri e disarmati, che fare? La ricerca di oggetti utili al nostro scopo, quindi anche armi e munizioni, avviene frugando all'interno delle numerose casse oppure setacciando i cadaveri che dissemineremo lungo il nostro cammino. Già da subito potrete aver accesso ad una pistola e a qualche proiettile, ma capirete ben presto che sparare non sarà sempre la soluzione migliore.
Il castello si divide in 64 stanze connesse tra di loro in maniera casuale all'inizio di ogni partita, tutte differenti tra di loro. Potranno essere popolate da due tipi di nemici che agiranno molto diversamente nei vostri confronti: il soldato standard, infatti, si limita a pattugliare le stanze cercando di colpirvi dopo avervi scoperto, ma con poca resistenza ai nostri proiettili; le guardie speciali, invece, non solo hanno un giubbotto antiproiettile in grado di reggere molti più colpi, ma sono anche molto sveglie, vi individueranno in fretta e vi rincorreranno pure tra una stanza ed un'altra. Vien da sé che è fondamentale ridurre al minimo gli scontri contro questo particolare avversario e imporsi di fare meno baccano possibile una volta entrati nelle stanze più affollate. Quando una locazione è molto popolata e quando è altrettanto necessario attraversarla, possono venire in nostro aiuto le uniformi nemiche di tanto in tanto disseminate nei bauli. Indossandole elimineremo il rischio di essere individuati dai soldati normali, ma dovremo fare attenzione a non passare troppo vicini alle guardie speciali perchè potrebbero istantaneamente freddarci. La pianificazione strategica delle nostre azioni diventa, quindi, indispensabile al completamento del gioco con tutto ciò che potevano significare queste introduzioni nel 1984 o, meglio ancora, nel 1981 quando debuttò su Apple II.
Qualche perplessità la suscita, invece, il divertimento in grado di proporre a distanza di così tanti anni. Castle Wolfenstein non esce tanto bene dalla sfida contro il tempo, sia per l'invecchiamento del gameplay sia per una tecnica poco ispirata. Partendo da quest'ultima, diventa difficile soprassedere su una grafica notevolmente scattosa, con i vari sprites che si muovono a blocchi lungo schermate quasi del tutto vuote con animazioni limitatissime, oltre a una consistente povertà stilistica. Il sonoro, al contrario, era realizzato ottimamente, con larghe quantità di parlato digitalizzato, rarissimo a quei tempi, benchè campionato a frequenze così basse da risultare di difficile comprensione. Anche la giocabilità era minata da controlli poco precisi implementando male il joystick e risultando a tratti noiosa, come quando bisogna attendere numerosi secondi, a volte minuti, per setacciare a dovere una cassa. La longevità si spiegava in una ventina di minuti richiesti per completare la missione, dopodichè la stessa ripartiva con una diversa disposizione degli ambienti ed una intelligenza artificiale più punitiva, con un gioco che rischiava di diventare in fretta monotono.
Seppur di elevata caratura e di immenso interesse nei primi anni Ottanta, risulta difficile da apprezzare ai nostri tempi, rimanendo, nonostante tutti i difetti, un software meritevole dell'attenzione di chi ama scavare nelle origini del videogioco.
Gianluca "musehead" Santilio
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