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ID: 249521Quando si deve parlare di un titolo memorabile, universalmente conosciuto e apprezzato, c’è sempre un po’ di patema: come rendere al meglio la sua bontà, condensando esaustivamente i pensieri, sublimandolo senza cadere nell’adulazione più sguaiata, e riuscendo per giunta a mettere d’accordo un po’ tutti? Tuttavia, benché The Secret of Monkey Island rientri a pieno merito nella descrizione di cui sopra, mi ritrovo a scriverne con un sorrisino da ebete stampato sul volto e a pensarci bene non potrebbe essere altrimenti. Era il lontano 1990 e ricordo come fosse ieri le mie perplessità nel leggerne lodi sperticate sulle riviste dell’epoca. Mi chiedevo come si potesse incensare un gioco pilotato dal mouse, pieno di scritte ed enigmi ad appesantirne lo svolgimento, presumibilmente lento e cervellotico, specie considerando quegli adrenalinici, spettacolari e in ultima analisi ignoranti coin-op che imperversavano nelle sale giochi. Spinto dalla curiosità per le tante recensioni entusiastiche, mi procurai ugualmente una copia e, nel momento stesso in cui inserii il floppy, ci fu il classico colpo di fulmine: Monkey Island mi entrò dritto nel cuore e, dopo svariati anni, non ha la minima intenzione di uscirne.

Esistono da sempre titoli capaci di regalare sensazioni viscerali (alcuni portando alla commozione, addirittura) ma è “facile” legarsi passionalmente a The Longest Journey o Syberia, tanto per fare un paio di nomi, perché rendono il giocatore partecipe dei sentimenti dei protagonisti, dei loro turbamenti interiori, vantando plot così complessi e profondi da far impallidire anche la migliore delle sceneggiature. In quel caso, si fa leva su corde emotive che, a meno di essere totalmente insensibili, vengono inevitabilmente toccate e smosse (questo, beninteso, senza discuterne l’eccellenza ludica). In Monkey Island non c’è nulla di tutto ciò: anche quelle situazioni in cui potrebbe trasparire un pizzico di romanticismo, avvengono in un contesto talmente grottesco da indurre un sorriso più che una lacrima. Forse è questo a renderlo speciale: giocare al titolo Lucasarts (allora Lucasfilm) mette di buon umore, non ci sono sentimentalismi esasperati, non c’è in ballo il gravoso destino del mondo, tutt’altro!
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Vestiremo i panni di Guybrush Threepwood, appena sbarcato sull’isola di Mêlée, covo dei pirati della peggior feccia, per realizzare il suo sogno fanciullesco, diventare uno di loro. Il giovane apprenderà di dover superare tre prove specifiche per ottenere l'ambito riconoscimento e, durante il loro espletamento, si imbatterà in una serie di individui decisamente peculiari, tra cui meritano obbligatoriamente di essere citati Elaine Marley, governatrice del luogo (di cui il nostro si infatuerà all'istante) e LeChuck, un pirata non morto (brutto, fetente e pure con l’alitosi), invaghitosi anch'egli della donna, al punto di arrivare a rapirla. Toccherà al povero ragazzo ostacolarne i loschi piani, sfidando non solo il terribile capitano fantasma ma anche la sua spettrale ciurma. Guybrush è ingenuo, codardo e imbranato, insomma, un vero e proprio anti-eroe ma di buon cuore, tanto da suscitare un’istintiva simpatia: impossibile non affezionarsi a lui. L’intera vicenda, poi, mettendo in scena questi filibustieri un po’ (tanto) sopra le righe, non può non rimandare a quel Pirati dei Caraibi campione d'incassi al botteghino, quasi una trasposizione cinematografica dell'opera Lucas. In realtà sarebbe corretto affermare il contrario, visto che il geniale game designer Ron Gilbert non ha mai nascosto di essersi ispirato all'attrazione Pirates of the Caribbean, dopo esserne rimasto folgorato durante una gita a Disneyland; ciononostante, le stesse pellicole con Johnny Depp hanno a loro volta saccheggiato la saga videoludica con omaggi più o meno espliciti, in un reciproco scambio di convenevoli (Barbossa, il cattivo de “La maledizione della prima luna” è un vero e proprio tributo a LeChuck).
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Siamo dinanzi ad una classica avventura grafica, genere molto in voga un tempo e di cui la Lucas era leader indiscussa, basata sul sistema S.C.U.M.M. (il cui acronimo cela una utility realizzata in occasione del primo mitico Maniac Mansion): nell’angolo in basso a sinistra alloggiano le azioni che è possibile effettuare, da abbinare ai punti sensibili dello scenario, ai personaggi o agli oggetti presenti nell'inventario, posto accanto all'interfaccia. La giocabilità è, mai come in questa tipologia di videogiochi, estremamente soggettiva. Qualcuno potrebbe annoiarsi in un punta e clicca ma va detto che Monkey Island è nel suo genere uno dei più divertenti in assoluto: il plot è semplice ma contempla una marea di situazioni da affrontare, e i relativi enigmi non risultano mai particolarmente ostici pur nella loro astrusa demenzialità (un pollo di gomma con una carrucola in mezzo?!), almeno non al punto da frustrare eccessivamente e inficiarne lo svolgimento. A differenza di altri titoli similari, inoltre, non è prevista la possibilità di morire o rimanere bloccati, ergo se ad un certo punto non si riesce a proseguire, non bisognerà disperare, perché si sta semplicemente tralasciando qualcosa di recuperabilissimo.

Tecnicamente, nonostante l’età, Monkey Island resta tutt’ora piacevole, soprattutto nelle versioni Amiga e PC VGA, rispettivamente dotate di una palette a 32 e 256 colori: molto carini i personaggi, deliziose le loro animazioni, gradevolmente evocativi gli sfondi (merito del tocco di Steve Purcell) e orecchiabilissime le musiche. I brani, una sorta di reggae caraibico davvero attinente allo spirito scanzonato che pervade l'intera vicenda, sono stati originariamente composti da Michael Land (prima di lasciarsi suggestionare dalle lusinghe del pretenzioso, per i tempi, iMUSE) e successivamente arrangiati e convertiti nella versione per il 16 bit Commodore nientemeno che dal grande Chris Huelsbeck. I dialoghi (ovviamente, visto il periodo, si parla di scritte a schermo e non di parlato digitalizzato) sono un autentico spasso, peccato che di alcune freddure e giochi di parole si perda un pò il senso e lo spirito originale nella traduzione in italiano; in ogni caso, menzione d’onore per il temibile duello col Maestro di Spada a colpi di… insulti, per un botta e risposta da antologia.
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Il gioco è infarcito di curiosi aneddoti ed Easter Eggs: il bislacco nome affibbiato al protagonista nacque dall’idea degli sviluppatori (intenzionati a crearne uno il più strambo possibile) di utilizzare quello del file con cui ne avevano abbozzato il disegno (Guy.brush), e nella locanda ci si imbatte in un pirata che pubblicizza, nemmeno troppo velatamente, Loom, altro titolo Lucas dell'epoca (un po' come accadrà nel terzo episodio relativamente a Grim Fandango). Pur avendone evidenziate solo un paio, sono presenti davvero tante altre citazioni e chicche in questo mondo assurdo popolato da personaggi squisitamente unici (come non citare Stan, il logorroico venditore di navi?).

Il lieto fine, obbligatorio in un titolo come questo, è assicurato e pone il degno sigillo ad uno dei più bei videogiochi di tutti i tempi. Mi sono sempre imposto di non assegnare 10 come voto perché concettualmente la perfezione non esiste, ma nel caso di Monkey Island non m’importa proprio nulla e gli attribuisco il massimo lo stesso. Il motivo è semplicissimo: giocarci è come aprire uno scrigno colmo dei ricordi più preziosi, badate bene, non sbiadite immagini in bianco e nero stampate indelebilmente nella memoria, ma emozioni da rivivere ogni qualvolta lo si desideri, provando, oggi come allora, lo stesso trasporto. Infatti, mi basta vedere la schermata iniziale e sentire le prime note della musica introduttiva per dimenticare in un attimo tutti gli assilli e le preoccupazioni della quotidianità, riscoprendomi adolescente a trascorrere delle ore spensierate insieme al mio amico di lunga data Guybrush, inseguendo il nostro sogno, quello di diventare pirati.

COMMENTO FINALE


"Quando Guybrush è approdato sull'isola di Mêlée, presumibilmente su di una scassatissima bagnarola, l'ha fatto per dare una svolta alla sua vita. In realtà, non avremmo mai pensato che avrebbe stravolto anche la nostra. Monkey Island è un carissimo ricordo, ancorché un fantastico videogioco. E quando entrambi gli aspetti vanno a braccetto, non ce n'è per nessuno ."


Giuseppe "Epikall" Di Lauro