Phoenix-Atari-2600 cover“Narra la leggenda che all’alba dei Tempi vivesse una creatura alata di straordinaria bellezza, simile a un’aquila, ma con piume color del sangue e dell’oro, dotata di un canto melodioso e irresistibile, unica nel suo genere in tutta la Terra: la Fenice.
Questo favoloso esemplare viveva in Arabia ed aveva un ciclo vitale di cinquecento anni, al termine dei quali predisponeva un nido con incenso, mirra ed altre erbe aromatiche nel quale, dopo avere appiccato il fuoco sfregando le proprie ali l’una sull’altra, giaceva a morire tra le fiamme.

Dalle ceneri nasceva quindi una nuova, rivitalizzata Fenice, che subito portava i resti della precedente al tempio del sole ad Heliopolis, in Egitto, per ivi sacrificarli sull’ altare.
Ma qualcosa di spaventoso e terribile è intervenuto a turbare questo equilibrio millenario. A causa degli effetti radioattivi di un fallout nucleare sul suo nido, la Fenice si è tramutata in un uccello rapace: ora non una ma innumerevoli creature si generano dalle ceneri del suo giaciglio, ed esse non hanno nulla a che spartire con la pacifica natura del loro antenato. Sono uccelli predatori. L’antico canto melodioso è ora un grido stridulo e graffiante. Le piume un tempo sgargianti si sono tramutate in una sorta di corazza metallica che rende queste mostruosità pressoché invincibili. E quel che è peggio, la progenie malata della Fenice ha voltato le spalle alla razza umana per offrire i propri servigi ad esseri alieni decisi a conquistare il pianeta Terra...”
È più o meno così, rinfrescando antichi miti con una spruzzatina di fantascienza Godzilla-style, che il manuale del gioco ci introduce alla storia ed al mondo di Phoenix, conversione del noto coin-op del 1980.

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Senza stelle ma con stile

Siamo dalle parti del fixed-shooter per antonomasia, destra-sinistra-sparo e pochi fronzoli. Uno spicca su tutti, lo scudo, ma ci torneremo più avanti.
Il terreno è quello del VCS e questo, nella fosca tradizione del piccoletto di casa Atari, significa che il cielo si oscura: le stelle che punteggiavano lo spazio astrale nello schermo della versione arcade (in verità, solo in 3 stage su 5) si spengono lasciando un fondo uniforme nero, anche se viene aggiunta una nota vivace sul fondo, dove la navicella pare “poggiare” su una superficie colorata, in questo caso viola, secondo un altro espediente tipico degli sparatutto per 2600.
Come nell’originale da sala, il nostro mezzo è un’astronave con appendici laterali che si allargano e si restringono scandendo il movimento orizzontale dello sprite: è da notare che questa feature non aggiungeva pressoché nulla al gameplay, ma proprio per questo la sua implementazione su console risulta ancora più lodevole. In più, la semplificazione grafica dello sprite e la sua monocromia (un bell’arancio) accentuano il carattere “aracnoide” dello stesso, facendolo sembrare un ragno androide che muove rapido le zampe, sulla scia dell’estetica tecno-organica che permeava molti shooter spaziali del tempo, come Galaxian e Yars’ Revenge.

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Oltre allo sparo, virtù immancabile in un titolo simile, la nostra navicella vanta anche un efficacissimo scudo, che può essere utilizzato premendo verso il basso sul controller per ripararsi dal fuoco dei nemici o direttamente per eliminarli quando si abbassano al punto da finire nel raggio d’azione della nostra difesa. Certo bisogna tenere conto di alcune controindicazioni, giacché altrimenti sarebbe tutto troppo semplice: lo scudo consente di fare fuoco ma impedisce il movimento, dura soltanto una manciata di secondi e prima di azionarlo nuovamente è necessario attendere che si ricarichi. Anche qui si impone poi una piccola nota descrittiva: dal momento che il VCS non ha grande familiarità con le forme tonde, lo scudo circolare iridescente del coin-op è sostituito da una barriera esagonale bianca, sei lati di geometrica perfezione come sei sono le lettere che meglio esprimono la bontà e lo stile delle scelte grafiche dei programmatori: C-L-A-S-S-E.
E se ne fa sfoggio anche altrove, in primis nei nostri avversari, per analizzare i quali conviene prendere in esame singolarmente i cinque stage che compongono ogni livello di gioco, ripetendosi in loop:

Primo stage: le nostre nemesi sono otto piccole fenici multicolorate, che si presentano in formazione grossomodo circolare, alternando momenti di stasi relativa in cui si limitano a sbattere le ali sul posto a lampi di furore in cui si tuffano verso il basso, sempre sparando dardi letali. Rispetto al coin-op, la differenza più rilevante è che il loro moto è meno complesso e che non sono in grado di percorrere tutto lo schermo sino al bordo inferiore, ma arrivano al massimo poco sopra il livello della nostra astronave.

Secondo stage: stessi nemici, ma con colori e disposizione differenti. La variazione più marcata sta però nel fatto che qui tenendo premuto il pulsante ci viene offerta la possibilità di fare fuoco continuo, anche se sempre alla stessa frequenza massima (un solo sparo su schermo alla volta), laddove nell’arcade questo schema beneficiava invece del rapid-fire.

Terzo stage: qui si comincia a fare sul serio. Fronteggiamo fenici di dimensioni superiori, e di aspetto davvero sorprendente: completamente blu, ma con splendide sfumature di colore sulle ali magnificamente animate, le sette nemesi di questo schema hanno pattern di movimento più letali e si lanciano anche addosso alla nostra navetta a mo’ di kamikaze, anche se in questo modo si espongono al rischio di essere nebulizzate dal nostro scudo, in una manovra che è fra le massime godurie del gioco. Particolarità di questi mostri alati è che per essere distrutti devono essere colpiti al centro: se uno sparo li coglie su un’ala, questa semplicemente sparisce; se vengono a mancare entrambe, poco dopo si rigenerano come per magia. I compromessi rispetto al coin-op sono sostanzialmente due: l’incapacità delle fenici di percorrere lo schermo in tutta lunghezza, sparendo sul fondo per riapparire in cima, e la mancanza delle peculiari “uova” da cui fuoriuscivano nell’originale.

Quarto stage: analogo al terzo, se ne discosta solo per la colorazione dei nemici, stavolta di un rosa intenso con sfumature viola.

Quinto stage: la nave madre. Un vero e proprio boss finale su Atari VCS, e scusate se è poco. Si tratta di una sorta di ufo gigantesco in tre colori posto a centro schermo, guidato da un alieno sistemato nel mezzo. La scocca inferiore dell’ordigno è vulnerabile ai nostri colpi, che la erodono progressivamente scavando dei veri e propri buchi dentro di essa. A tagliare in due il telaio della nave troviamo una sottile sezione, che scorre costantemente da sinistra a destra appena sotto il livello del malvagio pilota e dalla quale partono spari in quantità. L’unico modo per distruggere il boss è ricavare una breccia utile attraverso questo strato e farvi passare al momento giusto un proiettile che vada a colpire l’occupante alieno. Un sistema ingegnoso e divertente, ereditato tale e quale dall’arcade, che però poteva contare anche su una serie di piccole fenici in volo a difesa della nave madre, qui assenti.

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Contribuisce all’eccellenza d’insieme anche il sonoro, che diversamente dagli altri titoli di questo genere mostra persino una certa varietà. Gli effetti di spari ed esplosioni sono validissimi, ma quello che risalta più all’orecchio è il costante sottofondo. Fedeli al manuale, i programmatori si sono sforzati di riprodurre le grida strazianti delle fenici, diversificando fra quelle più piccole dei primi due stage e quelle più imponenti del terzo e quarto, mentre la nave madre emette suoni intermittenti ed ansiogeni, ideali per quello che rappresenta il vero spannung del gioco. Se poi questo contorno acustico non dovesse piacere, nessun problema: basterà portare lo switch sinistro sulla A per escluderlo e sentire soltanto gli effetti base.


Un gioco come si deve

È difficile trovare difetti in un titolo tanto raffinato e pulito. La risposta ai comandi è perfetta, la collision detection semplicemente non questionabile. Il feeling è quello classico degli sparatutto di una volta, con l’immancabile sistema di punteggio che premia l’eliminazione dei nemici quanto più sono vicini a noi: rischi in cambio di benefici, puro sapore arcade.
Se già grazie alla confezione grafica Phoenix si mette in una posizione di favore rispetto a quasi tutti gli altri sparatutto fissi per VCS, la presenza di stage differenti e persino di un boss finale gli dà un ulteriore vantaggio sulla concorrenza. A voler cercare il pelo nell’uovo, sarebbe stata gradita una modalità “hard”: quella di default, che è pure l’unica, offre una buona sfida, anche perché giustamente non regala troppe vite (una soltanto, ai 5000 punti, oltre alle cinque di base), ma dopo un po’ di pratica sarete in grado di impegnarvi in lunghissime sessioni di gioco, dato che l’incremento di difficoltà lungo i livelli segue una curva non troppo impervia.
E però si tratta davvero di sottigliezze e sfumature in un gioco elegante, maestoso, eterno: la formula di Phoenix rimane irresistibile e non stupisce che anche Imagic abbia tentato in qualche modo di riprodurne la magia con il suo Demon Attack, creando qualche grattacapo di troppo ad Atari. Ma questa è un’altra storia...

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Note

- La cartuccia di Phoenix fu venduta in abbinamento con il numero 4 della serie Atari Force, fumetto a scopo promozionale ma di gran qualità a firma di vere e proprie leggende del comicdom americano del calibro di Gerry Conway, Roy Thomas, Ross Andru, Dick Giordano e Gil Kane.


COMMENTO FINALE


"Phoenix è un prodotto di gran classe che riesce ad emergere per originalità e fascino anche nell’affollatissimo panorama di sparatutto per Atari 2600. I giochi leggendari, come la Fenice tra le fiamme, non muoiono mai del tutto: trent’anni dopo, il fuoco di Phoenix non si è ancora spento."